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Di Carvelli (del 10/12/2014 @ 18:26:39, in diario, linkato 1045 volte)
Il Grande Accusatore - da ora in poi IGA - fu consultato una sola volta. Parlò in modo che da molti fu definito confuso. Qualcuno lo considerò inattendibile - ma non era questa l'aggettivazione che ci si sarebbe attesi da un'autorità inquirente così fu ritenuto un commento inattendibile. Se ci pensate questa storia manifesta da subito sovrapposizioni e incongruenze. La più marcata di tutte è che IGA era nella realtà l'inquisitore anche se veniva inquisito. IGA parlava, rispondeva, ma nel farlo accusava. Era alla sbarra ma la sua voce metteva alle sbarra altri. Insomma, IGA era chi condannava per difendersi. Questo strano concorso di colpe non faceva bene a nessuno eppure si perpetuava in questa forma. Una forma funzionale al sistema di sofferenza che era allora imperante. Un sistema che, semplificando, prevede che chi deve difendersi deve necessariamente accusare. Non importa chi e perché accusi. Non conta se a ragione o a torto. Deve. IGA lo fece. Ma lo fece in una maniera incongrua. Una maniera che lasciò tutto uguale e, anzi, complicò le cose. Non fu un bel vedere. O, meglio, un bel sentire per gli inquirenti. Da qui il tanto parlare che se ne fece. Anche se mai fu detto quel che davvero doveva essere detto. Ovvero che IGA fece l'unica cosa che non doveva essere fatta. L'unica cosa che il sistema non era organizzato a tollerare. IGA si autoaccusò.
La lunga lista delle cose rimandate inizia con la parola "prete". Gli chiedo cosa significhi. Cosa abbia rimandato a quel proposito. Forse una messa da far dire? Qualcosa in relazione a una funzione di altro tipo? Magari anche un funerale. Lui dice che non ricorda. Che un giorno si è segnato "prete" e ora non sa perché. Poi si adombra e dice "da piccolo volevo fare il prete". Forse, dice, lo voglio fare ancora. Ma ha quasi settant'anni.
Di Carvelli (del 04/12/2014 @ 09:56:30, in diario, linkato 1006 volte)
Ho rimesso ordine ieri a degli appunti che avevo preso a un recente incontro pubblico con John Berger in occasione della presentazione del suo ultimo libro tradotto in italiano. "Capire una fotografia" (Contrasto).
L'incontro è iniziando da "Questione di sguardi", un testo in cui si respira il clima della fine degli anni Sessanta e della riflessione sulla condizione femminile. Parla così della presenza della donna e dell'uomo nella società di allora e in linea generale. Di esternalità e internalità. Ovvero della ricerca del potere come oggettivizzazione. La donna - spiega Berger - deve osservarsi. Ha in se, per così dire, un sorvegliato e un sorvegliante. È esistente in sé o perché riconosciuta dall'altro?
Berger ha spiegato poi così il suo modo di lavorare: invento molto poco e ascolto le persone. La prima cosa è per me l'ascolto.
Ogni racconto ha bisogno di una nuova forma espressiva se no si perde nel passato, nel vecchio.
Vagabondo: questo è il mio modo di lavorare. La felicità è un istante mentre l'infelicita è un romanzo.
Il compromesso non serve, bisogna essere intransigenti. Quando due persone non trovano un punto di incontro è davvero ottimo: vuol dire che c'è una terza possibilità e che per trovarla dovranno usare la creatività.
La differenza tra disegno e fotografia è un enorme tema. La grande evidenza è che la fotografia ferma il tempo. Quindi si guarda un tempo sospeso. Dipingere non ferma il tempo. Il tempo sospeso appartiene al passato. Il disegno non ferma il tempo e non appena c'è qualcuno che lo guarda gli presenta un presente. Sono un modo per dire come è ora. La fotografia è come una morte. La pittura, di converso, ci ricorda di come i morti accompagnano i vivi.
La signora anziana ripete per due volte la stessa cosa. "Sono arrivata troppo presto?" domanda. "Sono arrivata troppo presto?" domanda. Poi un'altra domanda. Chiede sempre rispetto alla sua inadeguatezza. Sottolinea una sua mancanza. Ma con la certezza che il suo anticipo stia a dire della sua precisione, della sua irreprensibilità. A volte dice frasi ancora più inequivocabili della sua ricerca di assenso, conferma. "Sono io che sono arrivata troppo presto?" In questo modo sottolinea gli errori altrui. Anche alla porta della fine. Come il segreto di un successo che non vuole dire lei. Ma che vorrebbe fosse detto.
Di Carvelli (del 26/11/2014 @ 08:28:29, in diario, linkato 1053 volte)
Il prete è corpulento.
Ha l'aria vagamente ottusa forse a causa delle labbra tumide e del collo eccessivamente irsuto che gli donano un profilo da primate. Sembra brasiliano ma nel suo corpo deve scorrere qualche goccia di sangue nero. Legge e annota il suo libro di catechesi scrivendo gravemente con la sinistra le parole "perdita di senso". Poi si alza e scende spingendo con vigore distratto i passeggeri a cui chiede scusa.
Avete presente quando Billy Collins scrive: "Non sono stato mai a pescare sul Susquehanna/ né su nessun altro fiume per quel che importa/ ad essere sinceri"? Non ce l'aveva certo con nessun poeta-pescatore. Metti un Carver o non so. Non voleva accampare scuse coraggiose a favore di autori non avvincenti o vittoriosi come Hemingway o chi per lui quando scrive nei versi successivi "Mi piace molto di più starmene/ in una stanza tranquilla come questa -/ il ritratto di una donna sulla parete,/ un piatto di mandarini sulla tavola -/ cercando di ricreare la sensazione/ di pescare sul Susquehanna". Piuttosto sottolineava l'avventura di genere che fa di un poeta o uno scrittore un cacciatore senza esserlo, un soldato senza aver mai abbracciato un moschetto, un giocatore di baseball anche se non dotati di mira particolare o un giocatore di poker con pochi punti buoni in mano. E, talvolta, persino, un poeta o uno scrittore senza esserlo davvero. La questione sta lì in mezzo, prima o dopo qualcosa che magari non c'è stato se non in una fantasia o in una allucinazione. La letteratura è questo prima e questo poi di un qualcosa che non è mai venuto. Soprattutto a e per chi scrive. Una piccola diminuzione, verrebbe da pensare? Una finzione? O piuttosto il suo vuoto/pieno specifico? Il gesto che crea quel che ancora non c'è stato o quel che c'è già stato (in una forma che non c'è stata).
Il film di Laurent Cantet, Ritorno a L’Avana, nasce nell’ombra proiettata da una crisi di processo. Il processo è (o meglio la sua crisi è): se proteggi qualcosa dal rischio che possa essere corrotto o corrompersi, lo corrompi. Inizialmente, definitivamente. Il mo(n)do in cui tutto questo è raccontato è quello della Cuba dell’era d’oro in cui il sogno della rivoluzione in uno o più paesi (Bolivia e il Che eccetera) sembrava una luce non meteorica. Cuba era una stella che brillava nella galassia caraibica e faceva luce sugli States, sul mondo paraoccidentalizzato centroamericano, latinoamericanizzato ma protetto da evoluzioni “indie” a suon di strumentalizzazioni ben gestite. Una stella che illuminata dalla Russia manteneva un fulgore che poi avremmo scoperto, come molte altre luci, essere dopata. Ma dopata era la controrivoluzione, dopata la scelta di sostenere regimi militari. In ultima analisi era dopata l’idea di dopare. Alla fine di tutto questo materiale di storia e storiografia ci sono le storie minime. Le commoventi saghe umane che hanno dato corpo a questo doping, a questa iperprotezione. Il film è in definitiva un’apoteosi al negativo dell’essere minati nella propria libertà. Ma la morale non è: poverino chi è controllato, vessato da un ingranaggio sospettoso! Quanto: chi controlla corrompe. Chi prova a dominare rovina e crea le basi per la sua stessa rovina. Anche scegliere – e bene – i propri efficaci controllori, basisti della rapina della libertà non fa che ritardare la fine del processo di disgregazione. Utilizzando germi per combattere altri germi in un corpo che è già malato per il solo fatto di essere stato scelto come oggetto di cura.
Chi aspetta l'autobus alla fermata freme e sbuffa. Qualcuno guarda l'orologio o tamburella su superfici risonanti. Siccome la paletta indica almeno otto linee, qualcuno proverà fastidio all'arrivo di una nuova vettura. La speranza si consuma male e a lasse di tempo.
Una parola che non mi entusiasma. La ripeto e non mi entusiasma. Provo a trovare dei sostituti. Tutti i sinonimi sono poveri di spessore, non hanno colore o hanno un colore troppo diverso dall'originale. Li trovo vuoti. Anche quelli più altisonanti. Tutte le alternative non hanno abbastanza volume. Usarle finirebbe per far sembrare la sostituzione pretestuosa, capricciosa. Provo a ripensare se il problema in fondo non possa essere solo un problema di pronuncia. Forse la parola in questione va detta con un'intonazione che nasconda il suo ingombro, che mistifichi la sua capacità di essere pervasiva, alta. Deve essere una cosa così: una modestia del pronunciamento. La parola è
Di Carvelli (del 19/10/2014 @ 10:50:26, in diario, linkato 1100 volte)
Dico la parola “domenica”/ come se fosse un cane zoppo./ So il nome della gamba che manca/ ma non lo dico./ Conosco l’andatura strascicata e flatulenta/ di un animale che mangia quel che capita,/ dove capita./ Vicino ai cassonetti,/ fuori dai ristoranti chiusi e naufragati/ dopo un sabato di coperti e comande./ La parola “domenica”/ e insieme il tuo nome lontano/ di te lontana/ della tua parola “domenica”/ del tuo nome/ che non dico/ per non chiamare il miracolo./ Ma ascoltarlo solo/ nella parola che non dico./ “Domenica”.
Di Carvelli (del 03/10/2014 @ 12:59:38, in diario, linkato 1046 volte)
La questione è semplice: quanta fiducia abbiamo nella letteratura? O – per dirla altrimenti, nell’altra metà del bicchiere – che tipo di sfiducia abbiamo sviluppato in questi anni intorno alla letteratura? Di che natura è? Da quando abbiamo iniziato a pensare al genere – non a tutti i generi – come una forma di elisir, quanto meno per il tema “letteratura? Ne siamo consapevoli? Lo rifaremmo? In questi anni sono nate collane? Che scopi si proponevano rispetto alla letteratura? Chi le curava sente di avere assolto a un suo dovere “intellettuale”? Pensa di aver contribuito al vasto registro delle opere d’ingegno di quel particolare archivio che va sotto il nome “letteratura”? Può fare riduzioni del suo operato, dell’ascolto che ha avuto, del lavoro editoriale che ha effettuato sui testi che ha scelto? Tracciare una linea di congruità e di evoluzione? Se quel libro è scomparso dalla circolazione (“uscito dal catalogo” ha il suono di una più grave licenza) ritiene che possa avere ancora senso ripubblicarlo? Trovare un gusto più moderno del packaging editoriale potrebbe ridare a quell’oggetto-libro nuova vita “letteraria” che non sia archeologica? E altre domande (fuori da queste domande): ha ancora ragione d’essere la letteratura in questa sua particolare forma “autoriale” pura – per distinguerla da un’impura, che media attraverso l’accesso al genere il suo contributo? Esistono case editrici che sentono di aver assolto (o per lo meno di aver provato a bilanciarlo con quello necessario del profitto) al ruolo di contributori del discorso letterario?
Di Carvelli (del 17/09/2014 @ 10:06:09, in diario, linkato 1093 volte)
Questo di Giuliano Capecelatro su Roma ("Passeggiate d'autore", Iacobelli editore) è in qualche modo un libro compensativo. Per esagerare, o meglio per estremizzare, vorrei dire che qualunque libro su Roma è compensativo. È quasi una definizione: chi scrive di Roma cerca di compensare un torto. È vero che Roma ha avuto tanto dalla storia e che ha dato tanto a chi vi è transitato, nella sua storia. E diciamo che questa sua attitudine al mito e al rito di sé l'ha resa e la rende immortale. Eppure ogni giorno muore o, come scrive Filippo La Porta, continua a morire. Lui scrive, per essere esatti, nel suo "Roma è una bugia" (Laterza) "Tutto ciò che qui giunge finisce, però non smette di finire". Questa è la ragione della sua eternità. La sua immortalità è qui. In questo present perfect continous. Alla fine chi scrive di Roma si occupa in un certo senso di morte e, magari senza accorgersene, di vita. Ecco che Roma continua a fare il suo dovere balsamico. Vi capita mai di pensare che le strade che spesso si dedicano ai grandi scrittori - e ancor più e a maggior ragione ai piccoli vuoi per ragioni di toponomastica finiscono nelle periferie meno statuite - non sono mai le loro strade? E che quelle che lo sono state spesso conservano dei nomi desueti e che forse meriterebbero nuovi nomi o cobattesimi? Il rito compensativo comunale è la targa. Così ci si riappacifica col fatto che quel personaggio o quel l'evento non ha avuto abbastanza rilievo toponomastico. Dare il nome alle cose o ricordare è il modo più giusto per non perdere. O forse è solo quello che conosciamo. Ma certo qualcosa merita dei ripensamenti. Ad esempio in via Sant'Angela Merici, al Nomentano, già eterna ed eternata dalla parrocchia ha vissuto il grande Cesare Zavattini che è invece ricordato nella periferica Bufalotta senza una ragione biografica. Perché non ripensarlo? Toponomasticamente parlando? E' solo un esempio. Uno dei tanti che si potrebbero fare per non dover chiedere a questo utile libro di Capecelatro un rimborso compensativo della damnatio memoriae che una città pregna di passato è costretta a fare sine die. Uno degli innumerevoli e necessari. Uno, tra le altre cose, alto. Non tarato sul consueto sguardo da vetrina o da marciapiede a cui siamo abituati. Uno, tra le altre cose, nemico dei più piccoli nei suoi intenti educativi o didascalici.
Di Carvelli (del 13/09/2014 @ 18:22:20, in diario, linkato 1019 volte)
Giorgia - Ti amo settimana prossima che oggi sto un po' impicciata. Ma, se capita, ti chiamo. La vita fa un po' fatica con me: sto sempre di corsa e l'amore mi prende a giorni alterni. La domenica so di riposo gli altri giorni stacco alle nove: se ce la fai bene se no amici come prima. A l'amore ci penso un'altra volta. Ti posso chiedere un favore? Se nel frattempo capiti a Londra mi compri un paio di Dr.Martens rosse a stivaletto? I soldi te li do quando torni.
Di Carvelli (del 08/09/2014 @ 11:15:24, in diario, linkato 1069 volte)
“Pazza idea (Xenia)” è un bel film greco di Panos H. Koutras. Un film con molte simpatie italiane, non ultima quella per Patty Pravo che è il convitato di pietra di questa rutilante trama da road movie. Protagonisti del film sono Danny e Odysseus, due giovani fratelli di 16 e 18 anni che decidono di partire da Atene (ma il viaggio di Danny inizia da Creta dove vive con la mamma appena scomparsa) alla volta di Salonicco alla ricerca di un padre fuggito lasciandoli bambini. Il film funziona come un viaggio iniziatico con riti dell’amicizia e della conferma del sangue, iniziazioni, animali e oggetti transizionali. Albanesi di nascita i due ragazzi sognano o pretendono un risarcimento che si chiama in mente loro “cittadinanza greca” e che finisce per essere la conferma di un legame di sangue reale contro uno genetico, scientifico che è, al netto di tutto, inutile (e giustifica il bel finale aperto). E serve a rimarcare anche il duro contrappasso che la ricerca della purezza “genetica” può creare. Nella Grecia di oggi: convinta al razzismo per la catarsi di un fallimento economico che è fallimento “politico”, quindi un autodafé un po’ autoriflesso. “Pazza idea” può essere definito un film antigenere. Contro il razzismo in qualsiasi forma e per l’amicizia e i legami reali del sangue, non sessuali né genetici. Qualche sforbiciata nel viaggio e nella fuga (tutta la sequenza centrale, per intenderci) avrebbe reso il film più ritmico.
Di Carvelli (del 04/09/2014 @ 16:25:03, in diario, linkato 1040 volte)
I golfini, le merendine, le manine. Sudare freddo e caldo. Dopo arriva una leggera brezza e ci si mette a riparo. Roma non è una città dal brutto clima aveva detto rischiando di essere un profeta pessimo. Ma si sarebbero fermati due o tre giorni massimo. Giusto il tempo, per lui, per ricordare una tarda estate di molti anni prima. Per lei un ricordo decisamente lontano, ben oltre la consistenza realistica delle lancette, dei calendari eccetera. In pratica lei no, non era nata. Avevano parlato di procreazione assistita e di premierato, di calcio e di gelati, di una canzone dei Coldplay, di un calciatore che aveva lasciato la moglie. Poi aveva piovuto e lui si era perso in pensieri decisamente lontani.
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