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Sulla domesticità femminile (e una postilletta sulle cose)
Di Carvelli (del 14/06/2006 @ 14:17:19, in diario, linkato 816 volte)

Segnalo da www.ilpostodeilibri.it il prezioso lavoro di Gaja Cenciarelli e Angela Scarparo dal cui mi permetto di estrarre...

Le donne felici (almeno un po’) sono quelle capaci di fuggire, non quelle che stanno a casa.

 

Un’altra cosa che si scopre da parte di scrittori meno cattolici e più rivoluzionari (non ho detto più grandi, Dostoevskij è sì grande, ma reazionario, e non c’è nulla di male in questo) è che per essere felici bisogna fuggire dalla casa paterna. Bisogna rifiutarne la morale, il diritto. Questo ha in mente Mathilde de La Mole dopo che si è innamorata di Julien Sorel ne Il rosso e il nero, meraviglioso romanzo di Stendhal. O bisogna fuggire dalla casa del fratello conservatore e rompicoglioni, come fa Angela Pietranera ne La certosa di Parma. altro moderno romanzo stendhaliano. Angela che nella fuga, nella mancanza di denaro e in un quartierino a Milano riesce, se non a essere felice, almeno a starsene tranquilla. Sono tutte indicazioni precise, queste: indicazioni di vita, di morale, di diritto, di diritti, e quindi anche politiche. Così come è politico, quel personaggio di donna anziana creato da Dickens. Una signora settantenne, che passa il suo tempo in fuga, con una casa provvisoria, (la sua casa è dentro di sé, sembra dire!) raccattando (siamo nella metà dell’800) bambini abbandonati per spirito di solidarietà. E’ forte. Sa tutto E’ una della poche che (con quel senso di anticipazione tipico dei bravi artisti, Dickens descriva) mentre muore dentro una fabbrica dove ha cercato rifugio, ci racconti quanto di brutto e di disperante possa portare la rivoluzione industriale. Un’altra indicazione: Middlemarch, George Eliot. Una donna intelligente, istruita, bella e brava, nella casa del marito (istruito, ma noioso e borghese) trova la più completa fra le infelicità. Ma che bisogno aveva questa meravigliosa, di questo marito, ti viene da chiederti? E ancora: La lettera scarlatta, Hawthorne. La fuga imposta alla protagonista che ha fatto una figlia fuori dal matrimonio si rivelerà una fortuna. Passati i primi tempi, lei, attraverso il rapporto con la bambina, lei che ha rinunciato a una solida casa in Europa, si libererà della morale che le ha imposto l’esilio – che era anche la sua – per trovare qualcosa che assomigli alla felicità. Libera dai padri – c’è la storia di una delle prima colonie americane in questo libro – dal padre, dalla casa, dalle case. Con una piccola casa dentro di sé, per sé, per sempre. Perchè chi la casa ce l'ha dentro di sé per una volta assumerà un'abitudine a cui farà fatica a rinunciare.

Il resto in www.ilpostodeilibri.it/joyce_55.htm#1

Post-illetta mia

Mi affascina l'idea di animare l'inanimato o meglio di restituire l'anima (è un vero e proprio atto di risarcimento) agli oggetti. Forse è che non siamo più animisti, siamo troppo antropocentrici, siamo consumisti...boh magari c'è statto un atto che ci ha separato dalle cose. E non dev'essere stato come mangiare una mela vietata. Forse però ogni giorni degli atti ci possono restituire le cose e ci dobbiamo provare. Come se fosse una piccola missione verso quello che riteniamo senza anima (inanimato). E invece moriamo per aver respirato una sostanza, bevuto o mangiato cose che non ci fanno bene, investiti dalle macchine. O ci ammaliamo per le cose. Insomma forse bisognerebbe dire che "le cose non sono le cose". Forse.