Di Alberto Capitta lessi (e ne parlai qui) il bellissimo CREATURINE (Frassinelli/il Maestrale). Mi sembrò uno degli esordi più significativi degli ultimi tempi e tuttora aspetto un seguito di quella emozione. Mentre aspetto scovo su Lo Straniero (www.lostraniero.net) questo viaggio e lo posto. Nell'attesa...
Viaggio in Sardegna
di Alberto Capitta
Siamo nell’antica Turris Libyssonis, l’attuale Porto Torres, sulla costa settentrionale sarda. Possiamo partire da qui e da un fermo immagine datato 215 a.C. per il nostro viaggio in Sardegna. Partiamo da qui, dallo stupefacente spettacolo delle banchine attraversate da formicai d’ogni genere: legionari romani che vanno e vengono, mercanti, carri, pollame dappertutto a centinaia, a migliaia di capi, e poi ancora polli e piccioni nelle gabbie; e in altre gabbie, più grandi, i fenicotteri, della cui lingua i romani vanno ghiotti. Uno spettacolo, una mescolanza di colori e di chiasso, e grano a quantità enormi proveniente dalle pianure del Campidano, disteso al sole e pronto per essere imbarcato sulle navi insieme alla sterminata marea di sardi in catene anche loro in procinto di essere deportati verso Roma, per essere venduti nei mercati come schiavi o esposti al Circo e fatti divorare dalle fiere.
Erano i tempi della conquista ma è bene sapere che ogni sardo, anche il più evoluto (o il più involuto, dipende dai punti di vista), conserva dentro di sé il cromosoma di quei giorni. Naturalmente questo non ha comportato, né comporta, alcun tipo di problema nel rapporto dei sardi coi porti e col mare. Nel secolo appena trascorso essi hanno preso sempre più confidenza coi viaggi imbarcandosi a migliaia sulle navi, chi per le Americhe, e non tornando mai più, chi per destinazioni più vicine e li si riconosceva durante le festività o i periodi di villeggiatura perché tornavano a casa con le targhe gialle della Germania. Poiché allora, si parla dei primi anni sessanta, a parte questi migranti per lavoro, ben pochi altri l’avevano visto, si fantasticava su quello straordinario “continente” consolandosi col fatto che anche l’isola lo era. Così dicevano alcuni. Certi addirittura, recandosi alla stazione di Sassari, si convincevano di essere al centro di un grande snodo ferroviario. Una convinzione risultata poi contagiosa. Quando sono nati i sottopassaggi più d’uno ha provato la sensazione di vivere in una grande metropoli.
Quando la destinazione o la provenienza dei convogli è arrivata annunciata dagli altoparlanti si è capito di essere diventati davvero importanti. Chi già era stato alla stazione centrale di Milano e aveva vissuto lo shock degli annunci dei treni provenienti da Istanbul o in partenza per Mosca o Copenaghen provava a ricalarsi nella parte ascoltando gli annunci per Sorso o per Chilivani. Non era proprio la stessa cosa.
Se poi ci sali su quei treni ti rendi subito conto che la terra presto finisce. Trenini che se ne vanno qua e là tristissimi nelle serate d’inverno, per le loro strade a scartamento ridotto, che non caricano che poca gente, che si fermano in stazioncine piovose e desolate dove non li aspetta nessuno, che trasportano pendolari e li distribuiscono per le campagne, compiono fermate in luoghi dai nomi di una Sardegna celata come Mamuntanas e Ortuabis, attraversano ponti e gallerie, a volte terminano la loro corsa presso un piccolo centro abitato, a volte imboccando veloci pianure finiscono quasi per miracolo nel cuore di una vera città.
Come Cagliari per esempio. Per un sassarese che vi arrivi per la prima volta la sorpresa è naturale. Grande porto, mescolanza di genti, traffico disinvolto, viali a scorrimento davvero veloce, ritmo da vera star insomma. Per me fu ancora più sconvolgente. Avevo 18 anni. Appena uscito dalla stazione fui sfiorato dal volo di una bambolina che rimbalzò sul cofano di una macchina. Era una giovane donna suicida ma lo capii solo quando me la ritrovai accanto e ancora adesso provo una certa angoscia nel ripensarci. Anche allora la cosa mi turbò, è chiaro, ma riprendendo a camminare tra la folla per quel giorno e molti altri ancora credetti di farmene una ragione pensando nella mia ingenuità che così sono le grandi città e in una grande città può capitare questo e altro. Quell’episodio mi aveva fatto sorgere per un po’ di tempo anche un’altra idea. L’idea cioè che l’isola fosse una terra di suicidi e che era bastato varcare appena le mura domestiche per scoprirlo. Invece così non era e così non è. O, almeno, la loro incidenza sul dato nazionale è mestamente dentro la media. Dove invece il dato nazionale si impenna è nelle carceri. Ma quello è un altro discorso, un discorso che va direttamente correlato con le condizioni degli istituti di pena in Sardegna.
Ce ne sono dappertutto, ai monti e al mare, tanto che potremmo verosimilmente definirla “l’isola dei forzati”. Carceri punitive per lo più, con in testa il San Sebastiano di Sassari e Badu ’e Carros a Nuoro. Per continuare col Buoncammino di Cagliari e il San Daniele a Lanusei e Isili e Mamone nel cuore più profondo della Sardegna e poi ancora Alghero, Oristano, Iglesias, Tempio, senza dimenticare l’ormai dismessa colonia penale dell’Asinara. Pessime nella maggior parte. Carenti nei servizi essenziali. Senza zone adeguate di ricreazione, sovraffollate, con le finestre a bocca di lupo. Luoghi spesso isolati, immersi nella campagna, lontani da chi potrebbe raccogliere un qualsiasi grido di dissenso.
È in questa situazione che fioriscono i suicidi. Se ne consumano dappertutto, da Cagliari a Sassari a Nuoro a Iglesias a Oristano. Il 35 per cento dei suicidi di detenuti in Italia avviene nelle carceri sarde. È un primato europeo.
Strutture detentive fatiscenti vecchie più d’un secolo fanno da sfondo a questi drammi personali. Edifici che sembrano lì a ricordare agli infelici inquilini l’eternarsi di penitenze e torture ottocentesche. Il problema del sovraffollamento in special modo si è fatto esplosivo. Oristano è al collasso, Cagliari pure, ma l’istituto in cui il livello di guardia è stato abbondantemente superato è il San Sebastiano di Sassari, pecora nera nel panorama carcerario nazionale. Un vero lazzaretto nel cuore della città gremito di detenuti affetti da aids, epatite B e C, tossicodipendenti e sofferenti di disturbi psichiatrici per anni tenuti in uno stato di totale abbandono. È qui che nella notte tra il 3 e il 4 aprile 2000 si è consumato il pestaggio di quarantadue detenuti inermi che avevano osato protestare perché lasciati senza cibo per due giorni, scatenando così la reazione dei Gom, famigerati gruppi operativi mobili della polizia penitenziaria. In quella notte è stata scritta una delle peggiori pagine nella storia della città. I militari, in tuta mimetica e anfibi, hanno fatto irruzione nelle celle devastando ogni cosa, distruggendo ogni piccolo bene caro a ogni recluso e fondamentale per la propria sopravvivenza o consolazione. I detenuti sono stati trascinati via per i capelli e alla presenza della direttrice e di altre alte cariche dell’amministrazione penitenziaria, denudati, ammanettati, percossi sulla schiena e sui genitali sino a perdere i sensi. Un massacro durato ore fatto di docce gelate, di polsi spezzati, sevizie, perquisizioni anali, traumi cranici e timpani perforati. Un orrore che nella mente dei suoi artefici si è perfino creduto di poter insabbiare. Ciò che non è accaduto. Fortunatamente i responsabili sono stati processati e condannati (o almeno chi diede gli ordini, i mandanti insomma; ma molti degli autori materiali, gli agenti di custodia, l’hanno fatta franca uscendone impuniti). Ma non è questo il punto. O, almeno, non solo. Il punto è che la città davanti a tale orrore e a tale onta non si è mossa, rimanendo inespressiva come sempre, indifferente, pigra. E di questa sua accidia non si rincresce. I suoi abitanti hanno continuato a lappare gelati intorno alle mura del carcere come sempre fanno andando e venendo per quelle vie su cui s’affacciano caffè e boutique, discutendo d’altro, parlando di vacanze e di televisione. Nessuna manifestazione, nessuna mobilitazione se non quelle attivate dai familiari dei detenuti. Negli anni le cose non sono cambiate di molto e ancora adesso la vita all’esterno continua a transitare pacifica mentre là dentro ci s’impicca ognuno come può.
Quello della mancata mobilitazione della cittadinanza non è un problema che investe la sola Sassari. Si sa che i sardi tutti sono incapaci di istituirsi in movimenti collettivi. Sembra proprio che non siano un popolo da movimento di piazza e, per certi versi, che non siano un popolo. Si direbbe che non avvertano la necessità di rivendicare alcuna unità nei fatti, lasciando alle singole corporazioni o alle singole circoscritte comunità, di quando in quando, il compito di risolvere, o meglio di risolversi, i problemi. Avviene così a Teulada, a Decimomannu e a La Maddalena. Eppure i problemi sono spesso estremamente rilevanti e gravi per tutti. In questi ultimi casi in particolare stiamo parlando di questioni legate alle servitù militari, una preoccupazione che dovrebbe riguardare l’intera popolazione della regione.
La Sardegna come si sa è un enorme poligono, un parco giochi per ragazzacci che si divertono a giocare alla guerra. Se ne vedono e se ne sentono ogni giorno di tutti i colori. Bombardieri, caccia, sommergibili a testata nucleare, portaerei, esercitazioni in cielo in mare e in terra con gente che sparacchia qua e là tutto il giorno, bombe che cadono in mare, aerei che precipitano, barche da pesca che colano a picco; insomma ci si bombarda e ci si silura come beceri ragazzi della via Paal. Ebbene in tutto questo putiferio di proiettili vaganti la gente, dico la gente, non trova la minima esigenza di farsi sentire, a parte i diretti interessati, come i pescatori di Teulada per esempio. Ma se si entra in un bar, se si sale su un autobus, se si va a fare la fila alle poste a Olbia come a Oliena, a Villacidro come ad Abbasanta, difficilmente si sente parlare di questo come di un problema pressante e di tutti. Perché la gente non la sente come una priorità. Perché sono problemi di Teulada dove è di stanza la base Nato, o di La Maddalena, dove è la base Usa. Perché la regione è attraversata da una fitta serie di muretti a secco che sembrano confinare i paesi nel recinto di un loro specifico ed esclusivo interesse.
Il caso La Maddalena però merita un’analisi a parte. Offre l’occasione per spiegare come sia diversificata la refrattarietà dei sardi nei confronti dei movimenti di piazza. Un problema che qui tocca un punto limite affondando perfino nel grottesco. Quando, nel 1972, gli americani fecero il loro ingresso nell’arcipelago, i maddalenini non solo non sentirono il dovere, o la necessità, di esprimere un loro dissenso, ma si posero quasi a difesa della base sbeffeggiando e boicottando chiunque, giungendo dall’esterno, arrivasse a manifestare la propria indignazione nei confronti delle forze Nato. Ricordo almeno tre occasioni in cui questo avvenne e la scena è sempre la stessa: il corteo dei manifestanti lungo le vie del paese e i maddalenini ai lati indispettiti e indisponenti. È una scena surreale e si è ripetuta per anni. E tutto ciò mentre sul loro mare veniva spalmata come un unguento la leucemia. Perché di questo stiamo parlando, di Torio 234, di Uranio, di Cesio, di radioattività, di reattori nucleari, armamenti atomici. Sostanze che proprio sull’isola di La Maddalena hanno già generato una serie di linfomi e leucemie e tumori ai testicoli. Stiamo parlando di plutonio, la cui dispersione di un solo chilo di sostanza nell’ambiente sarebbe in grado di provocare diciotto miliardi di cancri al polmone. Ce ne sarebbe abbastanza per far riversare la gente nelle strade, per farla gridare, insomma per far succedere qualcosa. Invece no, su quest’isolotto baciato dalla grazia della natura il cancro è accolto come qualcosa di certo ma da custodire con gelosia. La gente non si riversa affatto nelle strade e continua a sfogliare i gesti di sempre: c’è chi aggiusta una vela, chi vende il pane, chi lo compra, chi va a scuola o in banca, chi stende la biancheria sulla terrazza e guarda senza alcuna ostilità il sommergibile atomico riaffiorare in superficie come un elemento oramai assorbito dal paesaggio.
E pure con lo smantellamento della base c’è chi la rimpiange, ricordando come gli americani siano stati anche i benefattori di un’economia in crisi e di quanto la loro presenza abbia contribuito ad accrescere le opportunità di lavoro sulla piccola isola. Si scivola insomma in un pietoso lapsus sulla parola occupazione.
L’occupazione militare americana comunque non è stato l’unico esproprio attuato nell’arcipelago. Grosse porzioni di territorio sono interdette a tutti a Caprera dalla Marina militare italiana e sulla stessa isola La Maddalena. In più, a causa delle concessioni demaniali, alcuni tratti di costa sono a esclusivo uso dei soci di club privati come ad esempio il Club Mediterranée o il Touring Club Italiano. In alcuni punti poi a essere posseduto è il mare stesso, l’acqua. D’altronde ciò che interessa della Sardegna è soprattutto quello: il mare. Il mare e la sua industria delle vacanze. Il mare portatore di rosticcerie, il mare arredato di fast food, di gastronomie, di case e doppie case, alberghi, stabilimenti balneari, minimarket e supermarket, bar e snack bar, villette a schiera, bed and breckfast, pizzerie, agriturismo, camping, friggitorie, villaggi turistici, centri vacanze, minigolf, residence, caravans, campers, roulottes, bungalows, tavole calde, hotel, trattorie, birrerie, pub e boutiques. Ecco, questo è il mare. Il mare che ha sempre generato funerali sull’isola, dagli sbarchi dei fenici, dei punici e dei romani per continuare coi vandali e poi i bizantini, gli arabi, i pisani, gli aragonesi, i saraceni, i piemontesi e infine gli americani. Il mare da chiudere e da privatizzare, da recintare, da vietare, da divorare come un peccato di gola. Non importa un fico a nessuno né dell’uranio impoverito né dei problemi di pastorizia e siccità purché venga sempre garantito un lembo di spiaggia su cui starsene col culo a mollo nell’adorato mare.
Dire che sono lontani i tempi in cui l’isola beneficiava di una sua miracolosa grazia suona come un’ingenuità e non potrebbe essere altrimenti. Quello che è successo poi è responsabilità di tutti, sardi compresi. L’isola, come una povera madre, è stata aggredita e vilipesa, seviziata dagli estranei ma anche dai propri figli. In molti si sono alleati nell’immobilizzarla durante le violenze. La scavano, la ustionano, la vendono. Una terra crocifissa, martoriata dal fuoco e deflorata dalle aste degli ombrelloni. Sembra, si direbbe, abitata dai pazzi. Ecco, l’isola dei pazzi, potrebbe essere la giusta definizione di questi tempi, dopo l’isola dei forzati. Pazzi, questi figli, che si industriano per arderla viva, riuscendovi il più delle volte. Lasciandosi alle spalle un paesaggio sconvolgente, come una scrittura di alberi morti, abbandonata lì a raccontare di quale miseria ha dovuto essere testimone questa povera terra.
Paradossalmente però anche questo scherno viene lentamente riassorbito dal paesaggio. Tra le ceneri si fanno largo i nuovi germogli e poi altri ancora. Dei resti degli alberi viene fatta legna da ardere. In breve al bosco si sovrappone una collinetta o un praticello raso su cui pascola un gregge alla ricerca di foglioline tenere. Quel che più lascia stupiti è come una nuova bellezza si sostituisca alla precedente.
È una storia comune a buona parte dell’isola. Ciò che rimane è la memoria della foresta. La si coglie ovunque. Un’infinita labirintica distesa di piante secolari abitata da cervi, daini, mufloni, uccelli sembra sospesa a mezz’aria, come un sogno, a ricordare i millenni e le ere trascorsi. Un silenzio di alberi sovrasta campi e città. È la memoria della foresta.
Chissà, forse è questa ad accompagnare la solitudine dei sardi, a far loro compagnia in mezzo alla campagna come nell’abitacolo di un’automobile, tra la folla o al chiuso degli appartamenti. Forse è questo che risale in loro di tanto in tanto come il segno di un’antica spiritualità, una spiritualità arcaica confusa adesso nel clamore dei bar e nella ressa degli ipermercati. Non che ciò comporti una maggiore consapevolezza. Non che ciò implichi uno stile di vita. Gli abitanti di questa terra spesso vivono la stessa vita degli abitanti di una qualsiasi altra terra in Italia o in Europa o in Australia. D’altra parte i modelli a cui si rifanno sono esattamente gli stessi: seguono quiz e partite di calcio alla televisione, fanno la fila ai bancomat, vanno in aereo, giocano in borsa, organizzano villeggiature e preparano il Natale. Ma basta una leggera pausa di riflessione, basta un attimo di scoramento, una serata storta o un pizzico di tristezza perché loro sentano risalire dentro il fiato dell’identità. Niente di particolare. Solo un soffio, una leggera corrente. Ma in quel soffio c’è la sofferenza della colonia, c’è l’infelicità di fondo di una terra privata da sempre della sua sovranità, c’è un racconto notturno che non smette mai ed è il racconto dell’isola dalla notte dei tempi.
Questo è ciò che si portano dentro gli abitanti della Sardegna, consapevoli o no, ciò che emana dai loro volti quando lavano i piatti o servono il secondo e la frutta ai turisti della Costa Smeralda ridotti come sono oramai a popolo di camerieri, ridotti come sono, spesso, a invocare uno straccio di cementificazione sulle proprie coste pur di ottenere in cambio l’elemosina di un’occupazione senza alcun futuro.
Questo è ciò che esprime nel suo suono irrazionale e caotico il baccano delle scolaresche, il segnetto, il puntino che ogni bimbo porta sul viso nascosto tra i baffi di cioccolato.
Non sono semplici congetture ma la risultante di una storia millenaria che vuole ogni sardo discendente di una madre violata. Non c’è nessun male a riconoscerlo. Come non c’è nessun male a riconoscere che la violenza su quelle povere trisavole abbia infine prodotto il fenomeno di una razza ritoccata lasciando libero corso ai tratti genetici dell’invasore. È stato questo forse a incrinare nella popolazione la linea della volontà. Quando il ventre delle loro donne ha generato i tratti dell’occupante hanno capito che contro quel destino non si poteva combattere ed è venuta meno la loro leggendaria capacità nel resistere. A questo forse risale, ad allora, la loro inadeguatezza nell’organizzarsi in forme di aggregazione credibili e durature. Come una sorta di sfiducia, di pacato disincanto, di sfiducia nel mondo e nel suo divenire. I segni di quella sfiducia sono disseminati ovunque e l’esempio più clamoroso, il più evidente, è il disamore che i sardi nutrono nei confronti del loro ambiente. Il mare è lasciato depredare dal turismo, le campagne sono spesso sedi di piccole ma numerosissime discariche abusive, lavatrici, scaldabagni, automobili e detriti d’ogni genere vengono scaricati tra i cespugli, il verde agricolo nei dintorni dei centri urbani è aggredito e deturpato da un anarchico groviglio di esercizi commerciali. Infine i paesi: salvo rarissime eccezioni i paesi sardi sono luoghi oggi assolutamente privi di fascino, dominati da costruzioni che niente hanno a che fare con l’antica e originaria architettura. Facciate d’ogni colore, moderni supermercati, edifici di nudo cemento lasciati incompiuti in eterno sono il paesaggio desolante che si presenta agli occhi del viaggiatore d’oggi. Quasi che quel processo di sviluppo perennemente contrastato e la ricerca di una reale autonomia ogni volta umiliata abbiano prodotto una frustrazione che trova libero sfogo nell’accanimento estetico, sintomo di una comunità depressa che devasta il proprio habitat. Ma forse neppure questo basta a giustificare un comportamento tanto volgare legato piuttosto al decadere di una cultura che sembra più impegnata a trovare una sua certificazione oltre i propri confini, inorgogliendosi per falsi valori, vantando i suoi soldati della Brigata Sassari, applaudendone gli interventi senza mai una parola di dissenso da nessuno, esportando la guerra e disconoscendo così i principi posti alla base della sua identità. Tutto ciò con la benedizione di ogni classe politica e sociale e degli organi di stampa e grazie a un complesso di inferiorità che vuole l’isola grata di quel po’ di attenzione che il mondo riesce a dedicarle, qualunque sia la ragione.
Una cultura sbandierata come prodotto e privata sempre più della sua intima e profonda ritualità, confezionata per soddisfare le esigenze degli operatori turistici. Feste patronali rispolverate o seminventate, sagre d’ogni genere, gastronomia a tutti i costi e folklore per tutte le stagioni stanno mortificando il territorio come le servitù militari e trasformando l’isola in una gigantesca Pro Loco.
Per fortuna, a ben vedere, questa altro non è che la mistificazione della cultura, la sua maldestra rappresentazione, un surrogato senza alcuna qualità. La cultura intima, invece, è un’altra. O forse così mi piace pensare. È quella che si riscopre nella vita di tutti i giorni, è l’andare e il venire della gente che nello scambio continuo di relazioni la modifica e la plasma producendo quell’humus che costituisce l’alimento vitale per le future generazioni. Un sottostrato nutritivo fatto di abitudini, contraddizioni, progetti e convivenza civile non commerciabile. Un luogo in cui riposano le radici. Arriveranno altri giorni difficili. Nuovi approdi. I sardi continueranno a marciare disuniti sulla loro isola dei pazzi, dei forzati, del disamore. I tempi li metteranno di nuovo alla prova. E loro ancora perderanno o si riscatteranno, si venderanno e si tradiranno o si affrancheranno una volta per tutte dalla malasorte. Patiranno ancora o ingenuamente esulteranno, si ritireranno o resisteranno. Qualsiasi cosa essi facciano diverrà humus e andrà a far parte di quel sottostrato. Gesto o canzone, marcia o lacrima, tristezza o foresta andranno a finire lì. Lì dove tutto dorme: i minatori uccisi del Sulcis, i minatori dell’Argentiera, gli emigrati, i morti sul lavoro, i reclusi, i loro occhi, i ragazzini, gli alberi, le mani, le barche, i pesci. Ogni cosa andrà a finire lì, al riparo di quel prezioso sottostrato, l’unico inattaccabile, l’unico inalienabile.