Adelaide Cioni, la traduttrice di Pezzo a pezzo, ha intervistato Lydia Davis in esclusiva per il sito di minimum fax
Perché scegli la forma del racconto?
Non è stata una vera e propria scelta all'inizio: semplicemente non ho mai pensato di scrivere romanzi. Entrambi i miei genitori avevano scritto racconti e immagino che mi sia sembrata una scelta naturale. Poi la forma dei racconti si è sviluppata da quella tradizionale narrativa a qualcosa di più breve e più eccentrico. Forse col passare del tempo la dimensione dei racconti è dipesa anche dal fatto che tendevo a incastrare la scrittura tra le altre attività di una vita molto piena, che includeva figli piccoli e il mio lavoro di traduttrice. Ma d'altro canto l'ho poi scritto un romanzo (The End of the Story) quando ho avuto una storia più lunga da raccontare…
Credi, com'è stato suggerito in una recensione di Pezzo a pezzo, che i racconti possano essere più efficaci dei romanzi nel descrivere la psicologia dei personaggi?
No, direi proprio di no. In un romanzo si vive con il personaggio più a lungo, a volte si scoprono molti più aspetti di lui o lei, a volte lo o la si osserva cambiare nel corso del tempo. In un racconto invece un personaggio fa un'impressione più rapida o improvvisa sul lettore, ed è proprio quell'immediatezza che può avere un impatto molto forte e personale.
Una cosa che colpisce della tua scrittura è la limpidezza e la precisione con cui vai dritta al cuore delle cose. Come raggiungi una tale 'pulizia' nello scrivere? È un processo di graduale eliminazione o ci arrivi subito?
Quando scrivo la prima stesura di un racconto tendo a lavorare in fretta, e la maggior parte di ciò che scrivo resta poi invariato. Quindi gran parte della limpidezza e precisione di cui parli sono lì da subito. Nelle stesure successive, però, tendo a rivedere con molta attenzione e cura, e in questa fase spesso taglio il racconto un altro poco, elimino parole, espressioni, persino frasi che sembrano superflue.
I tuoi racconti hanno la struttura del ragionamento e il ritmo avvincente dell'ossessione. Parti da un singolo concetto e poi ci lavori attorno ritornandoci da diverse angolazioni. Questo spesso implica ripetizione di concetti e di singole parole, e crea una ragnatela psicologica da cui il lettore stenta a divincolarsi. Che peso ha nella tua scrittura la ripetizione?
Non comincio un pezzo con la volontà precisa di usare la ripetizione. Ma come dici molti dei miei pezzi aderiscono al modello e la struttura dei pensieri di una persona mentre analizzano un problema, e quel modello è molto ripetitivo per sua stessa natura. Specie nei momenti di emozioni intense, i pensieri sono ripetitivi. Se si presta attenzione alla struttura dei discorsi della gente, tra l'altro, specie nelle conversazioni di tipo emotivo, si sentiranno un gran numero di ripetizioni. È come se avessimo il bisogno di reiterare certi punti prima di poter andare oltre. O come se avessimo bisogno di convincere noi stessi o qualcun altro tramite la ripetizione.
Sei un'importante traduttrice dal francese - hai tradotto Sartre, Simenon, Proust e recentemente sei stata insignita del titolo di Chevalier Dans l'Ordre des Arts et Lettres dal governo francese - credi che la traduzione abbia influenzato il tuo modo di scrivere? E in particolare, che la struttura francese delle frasi abbia influenzato il tuo uso della lingua inglese?
Ovviamente la traduzione richiede una considerazione molto attenta delle parole che si scelgono - si è costretti a lavorare con una serie di limiti e bisogna raggiungere un certo effetto. Questo rende iperconsapevoli del linguaggio - vocabolario, struttura delle frasi. Per me è stato così più che mai quando ho tradotto Proust, perché il suo modo di usare la lingua è talmente straordinario ed era così importante per me cercare di eguagliarlo in inglese. Alla lunga, questa iperconsapevolezza linguistica deve avermi senz'altro educata a essere più conscia delle differenze tra i così detti sinonimi, per esempio, e a rendere la mia scrittura in generale più precisa.
Ma ho nutrito un profondo interesse nel linguaggio e in particolare nelle lingue diverse dall'inglese sin da piccolissima. A sette anni, mi misero in una scuola a Graz, in Austria, dove si parlava solo e unicamente tedesco: è stato così che ho imparato la mia prima lingua straniera - "full-immersion", senza dubbio! In più, la mia famiglia è sempre stata molto attenta alla lingua e a come viene usata nel parlare e nello scrivere, perciò sin dall'inizio, la lingua per me è stata non solo una cosa naturale e istintiva, ma anche uno strumento usato in modo deliberato e consapevole.
Per rispondere alla seconda parte della tua domanda, non credo che la struttura delle mie frasi sia particolarmente francese, ma potrebbe suonare un po' "non-americana" perché tendo a non usare la parlata colloquiale americana.
Scrivere e tradurre: cosa hai fatto prima? Due diverse arti, due diversi piaceri con le parole, e tu li pratichi entrambi: cosa trovi in ciascuno di essi?
Come ti dicevo, il mio incontro con le lingue straniere è stato molto precoce. C'è stato un anno in cui ho imparato a leggere e scrivere in inglese e l'anno immediatamente successivo in cui ho imparato a leggere e scrivere e parlare tedesco. Il processo traduttivo mi è stato instillato molto presto, quindi!
Al liceo già scrivevo in modo serio e al tempo stesso contemplavo la possibilità di lavorare come traduttrice. All'università traducevo e scrivevo contemporaneamente e da allora ho continuato a fare entrambe le cose. Mi è sempre piaciuto tradurre, tranne nel caso di certi libri scritti davvero male, quando avevo la sensazione che una macchina mi avrebbe potuta sostituire senza problemi! Ma la traduzione era principalmente quello che facevo per guadagnare, laddove non ho mai neanche considerato la possibilità di scrivere per soldi. Questo ha significato che scrivo solo e unicamente per piacere personale. Il piacere della traduzione è quello di vedere una nuova opera nascere in inglese, come per magia, senza l'invenzione e l'agonia dell'incertezza che si provano quando si scrive qualcosa di proprio. C'è anche il piacere di scrivere in uno stile completamente diverso dal proprio.
Leggendo Pezzo a pezzo le immagini e i pensieri dei personaggi mi sono sembrati così femminili e sottili che ho avuto l'impressione di avere tra le mani un libro in codice per donne, in cui il maschile è più che altro un interrogativo, qualcosa che si continua a cercare come senso, prima ancora che come uomo. Che ne pensi?
Quest'ultima idea è molto interessante e dovrò rifletterci su, più che rispondere subito. Tendo a credere, da sempre, che i pensieri e le reazioni emotive di uomini e donne non siano poi tanto diversi tra loro. O forse dovrei dire che secondo me, ogni uomo o donna porta in sé una mistura di tratti maschili e tratti femminili, in maggiore o minore quantità, e ci possono essere, per esempio, donne molto mascoline e uomini molto femminili e ogni possibile via di mezzo. Quindi io non vedo una linea di demarcazione così netta tra uomini e donne, ma piuttosto molte somiglianze. Ecco un esempio divertente: Una volta ho scritto un racconto che era fortemente autobiografico, ma nello scriverlo ho invertito il genere dei personaggi reali per camuffare le loro vere identità (cosa che funziona sorprendentemente bene) ma senza cambiare di una virgola alcun pensiero né azione. Dopo la pubblicazione, vari uomini che l'avevano letto si complimentarono con me, meravigliati che fossi riuscita a catturare con tanta accuratezza il modo di pensare e sentire degli uomini - ma ovviamente l'"uomo" di cui parlavano era, nella vita reale, una donna.
Nel corso della tua vita hai cambiato città e nazioni e case: ci sono alcuni libri particolari che porti sempre con te? Un nucleo cartaceo da cui proprio non riesci a separarti?
Quel "nucleo cartaceo" è un enorme problema nella mia casetta! Mi riesce difficilissimo separarmi da qualunque libro, persino da un qualche libro bizzarro preso per caso a una svendita di una biblioteca. (Mi viene da pensare che potrebbe rivelarsi utile se mi capitasse di scrivere una storia imitandone lo stile bizzarro...) Ci sono molti libri che mi porto dietro sin dall'università, e direi che i più preziosi sono quelli di Beckett e Kafka che non solo sono meravigliosi in sé e per sé, ma sono carichi anche di una serie di ricordi delle mie prime letture serie.
Tre autori preferiti morti.
A parte Beckett e Kafka, che sono stati come dei maestri, citerei Isaac Babel e, tra gli altri meravigliosi italiani, Italo Svevo e Primo Levi.
Tre autori preferiti vivi.
Grace Paley, una scrittrice di racconti che ora ha ottant'anni; Rae Armantrout, una poetessa mia coetanea che scrive poesie molto concise e umoristiche basate sul paesaggio della California del Sud; e quello che sto leggendo ora - se possiamo fare un'incursione lampo nella politica - un mio preferito per motivi del tutto diversi, dato che sono profondamente disturbata dalle azioni e dalle idee dell'attuale governo degli Stati Uniti, è l'umorista politico Al Franken e il suo libro necessario e importante intitolato Lies and the Lying Liars Who Tell Them: A Fair and Balanced Look at the Right. Per tornare alla letteratrura non-politica, e a quella italiana, di recente ho letto alcune poesie di Amelia Rosselli e ho trovato che fossero scritte in una forma molto interessante.
Hai tradotto La strada di Swann di Proust. È interessante pensare a te, la "Virtuosa del racconto", autrice di minuscole, efficacissime bombe letterarie, che lavori su un'opera come Alla ricerca del tempo perduto che viene utilizzata come la metafora assoluta di un'opera letteraria lunghissima. Che sensazione dà affrontare un lavoro simile? Ti viene mai la tentazione, anche solo nella fantasia, di ideare un'opera molto molto lunga anche tu?
È stato meraviglioso lavorare sulla Strada di Swann perché è scritto con uno stile così diverso dal mio - era un piacere infinito costruire quelle frasi lunghe in inglese. Non ho scritto molto di mio mentre traducevo quel libro, perché richiedeva una concentrazione e devozione assoluta, quando però ho ripreso a scrivere le mie cose ho scritto i racconti più brevi di tutta la mia vita, che sono incluse nella mia ultima raccolta di racconti, Samuel Johnson Is Indignant: alcuni sono niente più di un titolo e una o due frasi.
E, sì, ho ideato un'opera molto lunga - anche se non lunga quanto quella di Proust! - che sto portando avavnti poco per volta. Contemporaneamente, ci sono sempre una serie di racconti che si procedono. Dubito che smetterò mai di scriverne!