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Budda (i termini della questione)
Di Carvelli (del 07/11/2008 @ 15:33:37, in diario, linkato 777 volte)

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Uno dei termini della annosa questione
di Roberto Carvelli

Tuttavia c’è una differenza tra un Budda e un comune mortale, in quanto un comune mortale è illuso mentre un Budda è illuminato. Il comune mortale non sa di possedere sia l’entità che la funzione dei tre corpi del Budda.
Nichiren Daishonin (monaco buddista XIII secolo)

 

 

 

Del Buddismo mi hanno sempre colpito i termini semplici della questione. Sofferenza e gioia, felicità relativa e assoluta. E, last but not least – anzi, forse, addirittura, first –, illusione e illuminazione. Un binomio antitetico che mi sembra funzionale alla spiegazione di tante cose della annosa questione che chiamiamo Vita (e suo funzionamento). E altrettanto funzionale mi sembra l’innato fronteggiarsi tra Bene e Male ma non in termini così bianco e nero, né diavoloni incazzati e cherubini boccoluti ma solo un opportuno contendersi di estremi entrambi utili come a dire che un match è bello se è combattuto e non se stravince una squadra o un singolo. Che per vincere servono ostacoli da sfidare, sfide personali, traguardi senza per questo cadere in una Olimpiade continua e fiaccante e, soprattutto, fine a se stessa. Illusione e illuminazione – per tornare alla coppia che c’interessa – sono due parole per noi tra l’altro lessicalmente anche vicine e questo può essere un aiuto anziché no. Perché vicine lo sono pure funzionalmente. Come se a separarle fosse solo un piccolo scarto, un click che invece è un bang, anzi un big bang. Eppure il big bang è solo un effetto. Una conseguenza straordinaria di un evento piccolo che è il gesto di allungare la mano verso un interruttore e accenderlo. Il modo in cui si passa dall’una all’altra è solo davvero il click di un interruttore, e il gesto di accenderlo che è quello che ci riguarda. E questo, diciamocelo, non è un fatto inessenziale. E’ anzi un determinismo piacevole: non è da poco vedere che una cosa che fa la differenza sta lì a un passo, che se allunghi la mano e pigi quel tastino la visione delle cose su cui prima avevi visto appena ombre mostra figure nitidissime.

E i termini della annosa questione sono anche comprensibili. Quante volte – e quelle erano o ci sono sembrate coincidenze fortunate – una cosa ha cambiato di aspetto al verificarsi di un’altra? Una cosa in apparenza sfigata si è mutata in una cosa felice? Ci sono da sempre cose che acquistano una loro logica al verificarsi (anche al subitaneo verificarsi) di un’altra e questo, si diceva, è un congegno fortuito. Ma questo congegno si può anche provare a determinarlo. Cioè si può, a buona ragione, accenderla questa luce su cose non spiegabili. Ovviamente siamo nel campo delle semplificazioni ma non delle banalizzazioni, come qualcuno potrebbe obiettare, perché le cose stanno effettivamente così, anche se questo “così” non dice come si faccia ad allungare il braccio e a pigiare il tasto. E allora mettiamola così che il Buddismo non è altro che una ginnastica a esercizi per braccio che si allunga e pigia. Il gesto di una educazione fisica apparentemente trascurabile e aspecialistica che alla lunga crea un’abilità semplice (che può sembrare stupida) ma che invece serve a fare di una annosa questione una quotidiana felice celebrazione. Che è poco ma è anche quello che serve, a pensarci bene.