I ritmi DI AMY HEMPEL
di Paola Peroni
UNA SCRITTURA ILLUMINANTE COME UN LAMPO
Incontro a New York con la scrittrice americana Amy Hempel, autrice di culto in America e assente dalle nostre librerie da quasi vent'anni. Ora la Mondadori traduce l'intera raccolta dei suoi racconti con il titolo Ragioni per vivere. «L'osservazione e l'omissione vanno di pari passo», dice, a proposito della sua predilezione per la forma breve, che le consente di stringere frammenti limitati di esperienza in frasi precise e cesellate
Quando la prima raccolta di racconti della scrittrice americana Amy Hempel venne pubblicata, nel 1985 da Knopf, la critica la accolse come il promettente debutto di una voce particolarmente originale. La precisione del linguaggio, il ritmo della sintassi che rimandava a quello della poesia, la cesellata perfezione di ogni frase e l'introduzione di una forma narrativa frammentaria, capace di rompere con la linearità del racconto tradizionale, suscitarono l'ammirazione di numerosi scrittori, e tra questi Alice Munro e Raymond Carver. La cerchia dei fan di Amy Hempel si allargò ancora con la publicazione di tre ulteriori raccolte e, tuttavia, la esclusività della sua concentrazione sulla forma breve la rendeva una autrice per pochi. Con l'uscita nel 2006 della raccolta completa di tutti i racconti, presso Scribner, appena tradotta in modo eccellente da Silvia Pareschi per Mondadori con il titolo Ragioni per vivere, Amy Hempel venne finalmente scoperta dal grande pubblico, complici, forse, i numerosi premi e riconoscimenti che, finalmente, la sua scrittura le meritava. Tra i temi ricorrenti, condivisi dalle donne cui dà voce nei racconti, c'è la perdita della fede compensata dalla fiducia nella devozione degli animali, mentre i disastri naturali - terremoti e alluvioni - sono all'ordine del giorno e hanno perso i connotati della straordinarietà.
Lei ha dichiarato di non essere interessata a scrivere un romanzo e ha espresso rammarico per non essere stata in grado di scrivere poesie. In che modo la sua passione per la poesia ha influenzato l'acustica della sua prosa?
Leggo molti poeti contemporanei quando scrivo i miei racconti e trovo la loro influenza sul mio lavoro assai positiva. Considero ogni frase che scrivo come se fosse il verso di una poesia, la rileggo per ascoltarne il suono, il ritmo, così come per saggiarne la formulazione e il contenuto, insomma cerco di applicare gli strumenti della poesia alla prosa, provando a raggiungere quella sintesi, nella composizione del racconto, che mi rimanda al distillato dei versi, alla precisione del loro linguaggio: sono queste le qualità che inseguo in tutti i miei racconti.
Come sintetizzerebbe le attrattive del racconto come forma narrativa?
Il racconto impiega spesso una quantità gestibile di esperienza. Non si è costretti a coprire un vasto arco temporale ed esistenziale come accade nella maggior parte dei romanzi, perché il racconto si occupa dell'attimo, coglie quella che potremmo chiamare una illuminazione, il momento in cui avviene un cambiamento osservabile nella vita di chiunque. Mi interessano le situazioni in cui succede qualcosa capace di portare a un mutamento, soprattutto se quel che accade ha il potere di produrre un ribaltamento della posizione di potere interna a un rapporto, che sia un matrimonio, una storia d'amore o una amicizia. Improvvisamente la persona che aveva in pugno la situazione perde il controllo, ed ecco, sono questi cambiamenti a affascinarmi, a costituire una fonte di materiale su cui lavorare. Invece, mi riesce difficile mantenere alto l'interesse per ciò che accade durante un lungo lasso di tempo e per tante pagine quante sono necessarie a raggiungere la forma di un romanzo.
Nel racconto intitolato «La pietra Tom fra le anguille», c'è una nonna che chiede alla narratrice di aiutarla a ricordare i bei tempi quando era viva sua madre. E così la narratrice mette insieme una lista di momenti felici, colti tra quelli che ricorda di avere osservato nei rapporti tra le sue amiche e le loro madri: lei, infatti, non è in grado di ricordare nemmeno un attimo di felicità tra sé e sua madre. Questo racconto è esemplificativo di due processi ricorrenti nella sua prosa, quello che passa per l'osservazione e quello che porta all'omissione. Possiamo considerarli elementi fondamentali nella rappresentazione del tema dei suoi racconti?
Assolutamente sì. L'apprezzamento che ho più gradito tra quelli che ho ricevuto viene dallo scrittore William Kennedy, ed è stato: «Tu ometti tutte le cose giuste». La selettività è sempre al centro della mia attenzione, sia quando sono nei panni della scrittrice sia quando sono in quelli della insegnante di scrittura creativa. Di tutto ciò che si può dire di una persona, mi chiedo, qual è la singola cosa che può dire tutto di quella persona? Se uno scrittore è in grado di individuarla, può omettere tutte le altre osservazioni, le qualità meno sigificative, gli altri tratti e le altre informazioni. Per questo osservazione e omissione vanno di pari passo.
I racconti di Grace Paley hanno avuto una grande influenza sulla sua opera. Ce n'è uno, intitolato «Una conversazione con mio padre», in cui la scrittrice americana inserisce una storia secondaria dentro quella principale, fornendoci un esempio sorprendente del tentativo di esaminare la propria tecnica narrativa. Ad un certo punto il padre, nel racconto della Paley si lamenta: «Hai omesso tutto». Lei ha fatto qualcosa di simile nel «Raccolto», uno dei suoi racconti migliori, in cui la narratrice si rivolge al lettore dicendo: «Ometto molte cose quando dico la verità. Lo stesso vale per quando scrivo un racconto». Il suo è stato un tentativo cosciente di rendere omaggio all'opera di Grace Paley?
Non è stato assolutamente un tentativo cosciente e tanto più le sono grata per averlo individuato, perché mi dimostra quanto profondamente abbia assorbito l'opera di Grace Paley. Ho letto e riletto i suoi racconti molto prima di cominciare a scrivere, ed è fantastico e sorprendente scoprire che esiste in un mio racconto un cenno così diretto al suo lavoro. Nel racconto di Paley il personaggio solleva una questione giusta, perché è evidente che persone diverse, pur osservando lo stesso evento, ne daranno inevitabilmente resoconti differenti. Questo fenomeno non cessa di interessarmi. Grace Paley è stata molto abile nel mettere in bocca al personaggio del padre una critica rivolta al suo modo di raccontare: è come se si fosse autoinflitta una condanna, è come se avesse sfidato la sua scrittura dall'interno del suo lavoro, e per questo la ammiro.
Lei ha eliminato dai suoi racconti alcuni passaggi esplicativi, optando per una tecnica narrativa frammentaria anziché lineare, che ricorda il vagare della mente umana. Eppure, la struttura logica dei suoi racconti ha uno svolgimento perfettamente compiuto, ben lontano dalla casualità dei nostri pensieri. A lei sembra che la logica richiesta dalla narrativa agisca come un limite nella rappresentazione della realtà?
La narrativa non coincide con la realtà e necessita di bellezza formale. Un termine che mi piace usare è «destrezza creativa», con il quale intendo la capacità di dare forma al reale secondo i requisiti della narrativa, che implicano la necessità di omettere alcuni elementi, alterarne altri e immaginarne altri ancora. Per quel che riguarda la memoria, essa funziona in maniera frammentaria e non segue un andamento lineare; perciò, diversamente da quanto accade a molti altri scrittori, che trovano logico organizzare i ricordi, il pensiero, il comportamento e le azioni in una forma lineare, a me interessa riportarli a una scrittura frammentaria. Inoltre sono attratta da quegli scrittori che riescono a lavorare a un racconto, o anche a un romanzo, componendolo di frammenti numerati, o con diversi titoli o che, più semplicemente, montano spezzoni di testo separati tra loro, magari centinaia di frammenti: è un processo di composizione che si fa ancora più affascinante quando i ricordi o le idee arrivano mentre si sta scrivendo e non si sa ancora perché ci siano venuti in mente: ma proprio scrivendone se ne troverà la ragione e si imparerà qualcosa di nuovo.
In «Offertorio», il suo racconto più sessualmente esplicito, la narratrice, una contemporanea Sheradaze, racconta le sue avventure amorose per intrattenere il suo amante. Tra queste pagine lei torna ad affrontare temi che aveva già esplorato: la natura e il potere della narrativa, il valore nonché la possibilità di conoscere la verità; ma giunge a conclusioni diverse da quelle che aveva raggiunto in passato...
Uno degli obiettivi entusiasmanti che ho potuto realizzare scrivendo «Offertorio», è stato quello di mettere in mostra un impulso molto comune, ossia il desiderare più di ogni altra cosa ciò che alla fin fine ci distruggerà. L'amante della narratrice di «Offertorio» è un consumato voyeur, che vuole sapere i particolari di tutte le passate avventure amorose della donna: chiede di ascoltarle e riascoltarle, e vuole conoscerne i dettagli più intimi; ma quando la narratrice cede e glieli racconta, viene fuori che il suo migliore amante è stato un altro, non l'uomo che ora la interroga, e che finirà dunque per ritrovarsi annientato da ciò che desiderava tanto sapere.
In un racconto pubblicato di recente ha scritto: «Basta con le metafore. Nessuna cosa è uguale a un'altra»: cos'è che le metafore tolgono alla scrittura e alla costruzione narrativa di un racconto?
Le metafore a volte abbelliscono ciò che dovrebbe essere detto in modo diretto. È buffo, quasi comico, ma spesso quando si comincia a scrivere, una delle cose a cui si aspira è trovare una buona metafora. Non intendo, con ciò, criticare gli altri scrittori, ma per quel che mi riguarda sono arrivata a rendermi conto di quanto questa tecnica alla fin fine serva per tenere a distanza l'esperienza: l'uso delle metafore, o anche solo il paragonare una cosa a altro, mi allontana da ciò che cerco di dire e non aiuta il lettore a metterlo a fuoco con più chiarezza. Per me la sfida è stata quella di scrivere in modo strettamente letterale, e la sua conseguenza si è risolta in una sorpresa: ho scoperto che più ci si tiene attaccati alle cose più il lettore pensa che la scrittura sia densa di metafore. È curioso, ma è così. In ballo ci sono le aspettative di chi legge, che spesso si accosta alla pagina aspettandosi che le cose raccontate rappresentino altro. Per esempio, per me un orologio è un orologio, ma per altri rappresenta il passare del tempo. Forse l'esempio è sciocco, ma illustra la difficoltà di dire cosa sia esattamente una cosa. Ricordo che lo scrittore Terrence Des Pres, autore di un brillante libro intitolato Il sopravvissuto, sulla sua esperienza nei campi di concentramento, mi disse che uno dei problemi e delle difficoltà che si incontrano scrivendo, appunto, un libro sui campi di concentramento è che non esiste alcuna esperienza paragonabile. Il campo di concentramento è la metofara di se stesso.
I luoghi sono molto importanti nei suoi racconti, non è vero?
Sì, la mia prima raccolta di racconti è nata dal mio rapporto con la California, che per me è solo uno stato geografico, non una condizione mentale. Ci ho vissuto, sia al sud che al nord, e ne sono rimasta molto impressionata: è stato il posto più bello e il più misterioso in cui abbia abitato. Per me che sono nata nel Midwest la California è un luogo magico: era naturale che le storie della mia prima raccolta fossero ambientate lì. C'è chi è più bravo a conoscere le persone, io sono più interessata ai luoghi, e fra l'altro ero molto attratta dai terremoti, che in California abbondano.
Mondadori ha usato il titolo della sua prima raccolta, «Ragioni per vivere» per l'edizione italiana che raccoglie tutti i suoi racconti. È un titolo strano data la dominante della morte nella sua opera. C'è forse dietro una intenzione ironica?
All'inizio è sembrato un titolo ironico anche a me, poi sempre di meno. Me lo aveva suggerito il mio editore e mi piacque. L'attaccamento alla vita delle donne che popolano i racconti è così labile, che non sembrano avere sufficienti ragioni per vivere; ma poi mi sono resa conto che qualsiasi ragione, anche la più piccola, è una buona ragione se riesce a tenere qualcuno in vita.
il manifesto 8.X.09