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Il tri-car, Carver (Rilke) e la casa rifugio
Di Carvelli (del 26/11/2009 @ 08:57:05, in diario, linkato 1349 volte)

Portiamo tutti e tre un Car nel nome o nel cognome. Io, C. e G. Ieri G. passa a sorpresa da casa mia. Ore 22: una roba così. E' andata da poco via F. G. mi racconta cose sue recenti. E mi stupisco del grande parallelismo in cui viaggiano le nostre tre vite. Da luglio io, C. e G. abbiamo fatto un giuramento, una specie di voto. Vite diverse, fatti diversi abbiamo deciso che qualcosa sarebbe cambiato e ognuno aveva di che cambiare qualcosa. A suo modo. Con una propria urgenza - propria in ogni caso. Ora siamo ad una svolta. Senza saperlo stiamo chiudendo o aprendo qualcosa, non so. E' successo. Non ce lo siamo detti. Diciamo che io che ho raccolto le confidenze di entrambi e ci ho sommato la mia me ne sono accorto per primo. E, di nuovo, non posso che dirmi stupefatto.

Leggo un raconto di Carver che si intitola LA MOGLIE DELLO STUDENTE. Parte così:

"Le aveva letto Rilke, un poeta che gli piaceva, e lei si era addormentata con la testa sul suo cuscino. Gli piaceva leggere a voce alta, e leggeva bene - con voce sonora e sicura, ora con un tono basso e cupo, ora crescente, ora penetrante".

Nel racconto la donna si addormenta. Poi si risveglia ma stavolta è lui che dorme e non c'è verso di svegliarlo. Mi addormento anch'io. Quando mi risveglio penso a Rilke e alle bellissime ELEGIE DUINESI. Alla prima elegia in particolare (che possiedo nella bella traduzione e cura di Franco Rella, BUR). Quella che inizia così:

Se pur gridassi, chi mi udrebbe dalle gerarchie
degli angeli ? E se uno mi stringesse d’improvviso
al cuore, soccomberei per la sua troppo forte presenza.
Perché nulla è il bello, se non l’emergenza
del tremendo: forse possiamo reggerlo ancora,
ed ammirarlo anche , perché indifferente
non degna distruggerci. Ognuno degli angeli è tremendo.
E mi trattengo così, e inghiotto l’appello d’oscuri
singulti. Ah! Chi possiamo allora chiamare in aiuto ?
Gli angeli no, gli uomini no, e i sagaci
animali lo notano già quanto noi inadeguati
siamo qui di casa nel mondo già interpretato.
Ci resta forse un albero là sul pendio, che ogni giorno
possiamo rivedere; ci resta la strada di ieri e anche
l’adusata fedeltà ad una abitudine, che in noi
si è rintanata, è rimasta, e non se ne andò.
Oh, e la notte, la notte, quando il vento colmo
di cosmici spazi ci corrode il volto – a chi mai
potrebbe mancare l’agognata , che sì dolcemente disillude,
essa, che di fronte al cuore solitario penosamente
si leva ? È forse più lieve agli amanti ?
Il destino lo nascondono soltanto l’un l’altro.
Non lo sai ancora ? Getta dalle tue braccia il vuoto
fin dentro gli spazi che respiriamo; forse gli uccelli
con volo più intimo sentono l’aria così dilatata.

Sì, le primavere ebbero bisogno di te. Di te cercava
qualche stella, chè tu ti mettessi sulle tue tracce.
Saliva attraverso il passato un’onda, o forse là dove
passasti, da una finestra spalancata, ti si offriva
un violino. Tutto questo era un compito. Ma tu, tu
lo potresti reggere ? Non eri forse, ancora una volta,
sempre disperso nell’attesa, come se tutto annunciasse
un’amata ? (Dove vorresti custodirla, che i grandi
pensieri stranieri in te vengono, vanno, e indugiano
spesso di notte). Se lo vuoi, canta allora le amanti;
non è ancora immortale il loro sentimento famoso.
Quelle che tu quasi invidi, le abbandonate, a te
più care delle appagate. Ricomincia sempre
di nuovo l’inattingibile celebrazione; pensa:
l’eroe rimane; anche il trapassare fu per lui
solo un pretesto per essere: la sua ultima nascita.
Ma le amanti l’esausta natura in sé le riprende
di nuovo, come non ci fosse più altra forza per
questo compito. Hai parlato abbastanza di
Gaspara Stampa, così che una qualche fanciulla,
cui sfugga l’amato, ne senta dentro di sé
entusiasmante l’esempio: e se come lei fossi io ?
Non devono forse alla fine questi così antichi dolori
diventare fecondi per noi ? Non è tempo che amando
ci liberiamo noi dell’amato restando frementi:
come la freccia, che è tesa alla corda, raccolta
nello scatto per essere oltre e più di se stessa.
Perché non c’è più luogo alcuno per stare.