Stamattina mi sono svegliato con questa canzone che è citata (male per refusi editoriali) in un brano di cui vi faccio omaggio, due piccoli estratti da Kamasutra in Smart, un libro ormai uscito da diversi anni e credo ora esaurito. Qui Luna (capitolo 5) che ha incontrato il protagonista a seguito di un incidente lo invita ed esce con lui. Lei ha poco più di vent'anni lui ne ha quarantacinque. Sono due mondo lontani che si scontrano e cercano di recuperare anni e tempo facendo il gioco delle separazioni, come in questa scena finale rivissuta nel ricordo:
– Cerchiamo le cose che ci avvicinano, non quelle che ci allontanano – aveva detto una volta lei per distogliermi dalla cupezza e dalla pesantezza del tempo.
– Vediamo… Gli U2, Vasco Rossi, Pippo Baudo, fare trekking, il calcio… Sì, ma facciamolo anche con quelli che ci dividono…
– Sei il solito negativo.
– Io? Perché tu? Allora allora… il piercing, il commercio equo e solidale, il mobbing, il lavoro interinale, goldrake, yuppie du, uhuhuh ramaya…
– I consigli di fabbrica…
– Quelli si fanno ancora, credo.
– Il PCI, la verginità, Mao Tse-Tung, il perizoma, depilarsi il sesso...
– Basta, sei irriverente… ricominciamo con quelle che ci uniscono… il calcio-balilla, i Bee Gees, Van Morrison…
– E chi è Van Morrison?
Potevamo continuare per ore intere ad elencare parole e cose nel tempo, del tempo. Ci piaceva. Era il nostro gioco, il nostro modo per costruire ponti tra di noi oltre che con il sesso. Somigliava a quell’attimo di totale fluttuazione di personalismi in cui i musicisti accordano i loro strumenti producendo una polifonia dissonante ma gradevole, sospensiva e promettente. Ora lo giocavo da solo a casa. Mi accordavo senza Luna e senza magia. Non si può dire che le cose fossero migliorate.
Capitolo 5 – Nel quale la infili dappertutto
ECCO L’AUTO PICCOLA PICCOLA
Centri urbani sempre più congestionati, traffico sempre più convulso: sono questi i problemi che affronteranno gli automobilisti del 2000. E una soluzione, per creare maggiore spazio, visto che le strade non si possono allargare, è stringere le vetture. Anche a questo devono avere pensato i progettisti della “Smart”, al momento la più famosa fra le citycar. Anche se questa classificazione le sta un po’ stretta.
(smart - prove tecniche di Quattroruote)
Luna ha una guida audace. Una guida fatta di scarti improvvisi durante i quali io sono quasi meravigliato che nessuno al nostro lato, su due ruote, cada vittima di queste subitanee variazioni di viaggio. Andare avanti senza udire urti, tonfi mi sembra miracoloso. La sensazione è: essere dentro un missile, un proiettile, un siluro, una bomba. Siamo velocità con vento attorno, un bozzolo circondato di aria. Un motorino con le pareti. Tutto ci è vicino.
Non abbiamo molto da dirci. Non parliamo. E mentre andiamo penso che forse è stato un errore accettare l’invito ad una serata che non ha una sua logica precisa. Uscita irregolare di cui un giorno favoleggerò rimproverandomi indecisione, imperizia. Anche se ho detto la mia, se ho fatto la proposta che dovevo. Invitata a salire a casa ha detto “no”. Cosa significa un no? Quanta fermezza contiene? Deve avere un suo seguito? Un’altra domanda? Un nuovo invito? Un’attesa? È il codice miniato.
Ci infiliamo ovunque, tra le macchine strette ad un semaforo e andiamo. Verso un locale di via di Libetta. Non ci diciamo nulla. O poco. La macchina. Quando se l’è comprata. Non altro. Non temi più forti tipo “con chi vivi”. Il cellulare le squilla in una nuova polifonia. Non quella dell’altra volta. Lei guarda il display e lascia fare. Non dice nulla, non commenta. Tiene tra le mani la piccola farfalla argento e il filo male annodato attorno. Risquilla e lo riguarda. Nulla. Risquilla e solo un “uffa”. Trilla ancora con un’insistenza sicura. Lo rimette nel vano dietro il contachilometri che è spazioso e mantiene anche la sua borsetta. Rosa. Piccola.
– Perché la gente non capisce!?
– La gente?
– I ragazzi. I ragazzi della mia età.
– Ti avviso, mi stai dando del vecchio!
– No. Anzi. Io preferisco la gente grande, quelli come te. È come se non fosse necessario parlare. Non dico che capite di più.
– Lo prendo come un complimento?
– Non ti offendere! Ho detto solo che, a prescindere da tutto, non state lì a fare tante domande, a insistere. Con voi le cose sono più facili. Non c’è bisogno di stare ogni volta a rispiegare.
Squilla ancora la polifonia.
– Ah allora non vuoi capire, cazzo, e allora sai che faccio? Ti spengo.
E ce ne rimaniamo per un minuto in silenzio. Solo il jingle del software del cellulare che si disconnette.
– Che palle. Una è chiara. Ti dice non mi cercare. Non significa nulla.
– Cosa non significa?
– Le cose si fanno anche così senza sapere dove portano. Si fanno e basta. Mica bisogna stare sempre lì a spiegare. Ecco forse voi più grandi almeno non siete insistenti. Siete più abituati alle non-risposte, ai dubbi.
– Non ne sarei così sicuro. Shhh questa è una canzone dei miei tempi.
– All night long, la conosco anch’io, vedi?
– Sì, ma io avevo la tua età. Cazzo.
Frenata brusca. E retromarcia.
– Certo che non perdi il vizio tu?
– Neanche il pelo se è per questo. Cos’è che non ti va?
– Che freni senza guardare dietro.
– Ho guardato ho guardato – s’incazza.
– Diciamo che stavolta siamo stati fortunati che non c’era nessuno dietro.
– Uffa, ti ho detto che ho guardato! – si spazientisce.
– Toglimi la curiosità ma quante te ne fai al giorno?
– Di che? – sorride maliziosa.
– Di macchine.
– Pensavo di uomini?
– Pensavi male. Volevo sapere “quante ne tamponi” se no avrei detto “quanti”.
– Infatti io pensavo… quante …scopate…
– Quante?
– Tutte le volte che mi va. Ma tu volevi sapere delle macchine forse?
Non so cosa dire in alcune situazioni. Ma spesso non serve. Non siamo mica a portaAporta che devo avere una replica. Ecco una cosa sì l’ho capita, che il silenzio contiene tutte le risposte possibili mentre una risposta sbagliata tiene sicuro sicuro un errore.
Il parcheggio non è venuto male. Onore al merito. Ma magari è anche una tautologia viste le dimensioni della macchina. La strada è buia. Non c’è neppure quel caos di andature che minano la tranquillità poco più in là. Quelle divisioni scomposte che caricano le liste degli ingressi in discoteca: un nome con a fianco cinquanta, cento nomi. Truppe miste e vocianti, battaglioni di maschi e di femmine armati delle migliori intenzioni e del loro quartiere che trasmigrano in questo porto franco del divertimento portandosi dietro orgoglio di contrada e modi di dire solo loro. Come sarà successo che questa zona così marginale sia diventata la mecca del divertimento notturno? Gazometri, metri cubi di abbandono, piazzali delle verdure, stanziamento di frutta, magazzini con un futuro di buttafuori e P.R. Più in là addirittura un porto fluviale, caserme, ponti di ferro, una stazione a forma di toblerone con dietro marmo e tanto abbandono che consegue ad eventi irripetibili come i mondiali di calcio degli anni Novanta. Schillaci, Baggio e tante stazioni nuove poi abbandonate.
Karamu fiesta for ever all night long. Luna toglie la chiave dalla sua destra, vicino al piccolo cambio da videogioco e cadiamo nel silenzio. Nei primi attimi della stasi si decide tutto. Le operazioni di spegnimento, di chiusura, di assicurazione della macchina al marciapiede: sono attimi decisivi. Momenti che possono determinare un seguito. È interessante come possano risuonare le voci in un abitacolo così piccolo ma anche come possa riecheggiare il silenzio. Come se fosse una nota lunga tipo quella che senti quando esci da un concerto tornando nella quiete. Luna mi tiene gli occhi addosso come un gatto.
– Scommetto che non baceresti una ragazza in macchina.
– Perché?
– Per quelli come te la “Situazione Uomo/Donna” è casa, luci soffuse, musica d’atmosfera… Aspettate la pausa di un discorso. Volete un via libera. Vi aspettate un incoraggiamento. Sapete che le ragazze oggi sono intraprendenti, decise e…
– E sbaglio?
– No. Non sbagli.
Mi avvicino alle labbra di Luna, flettendo poco il busto, e creando l’eco di una bocca che si apre con tutta la risonanza del pieno che c’è dentro. La saliva, la lingua – come un pesce che ci nuota dentro a quest’acqua – i denti, le labbra. Tutta una serie di strumenti che poi suonano una piccola sinfonia di suoni bassi, acquitrinosi.
– Hai perso.
– Ho perso a parole. A mente ho vinto.
– Ah hai scommesso su due? Sei una a cui non piace perdere?
– Sono una a cui piace vincere. Ti dispiace passarmi le mani addosso?
– Su quale risposta hai scommesso? Su questa?
– Sì.
– Così?
– Così. Ma non così poco. Di più.
– Così?
– No, guarda.
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