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Scusate se insisto: la Roma
Di Carvelli (del 20/09/2004 @ 14:59:30, in diario, linkato 1156 volte)

da il manifesto del 17 settembre

 

Il lato oscuro della Lupa
L'arbitro ferito al capo, la partita con la Dinamo Kiev sospesa, una punizione esemplare dell'Uefa in arrivo. La maledizione del passato che ritorna. La Roma fa i conti con le proprie ossessioni. E se tornasse a essere solo una squadra di calcio?
GUIDO LIGUORI
ANTONIO SMARGIASSE

Roma giallorossa è attonita, shoccata, il giorno dopo gli ennesimi «fatti dell'Olimpico». C'è chi tace, in lutto. Chi ammette: adesso abbiamo esagerato. Chi intigna: quell'arbitro è un mascalzone, un provocatore, hanno fatto bene, o quasi... Un mercoledì nero per i romanisti, scrive un quotidiano. Iniziato con il nuovo «caso Cassano», proseguito con l'ammonizione a Totti, l'espulsione di Mexes e un primo tempo meritatamente in svantaggio, conclusosi con la faccia insanguinata dell'arbitro Frisk. Un mercoledì che segue, come non vederlo, una catena fatta di tanti, troppi «nervosismi», dalla rissa col Galatasaray alle tante polemiche innestate da Sensi, alle corna di Cassano in diretta tv a San Siro, allo sputo di Totti in Portogallo. Immagini che fanno il giro del mondo, che rovinano un'«immagine» sapientemente costruita grazie ai tanti che - per mestiere ma anche per passione - cercano da tempo di confezionarla in positivo. Ma perché tutto questo? Come è potuto succedere, come può succedere? Nulla è solo frutto del caso, soprattutto quando gli eventi si susseguono formando una catena che si allunga nel tempo. E allora proviamo a ragionare, proviamo a capire cosa c'è nel Dna e nella storia, recente e meno recente, della squadra giallorossa. Solitamente le squadre di calcio sono nate e nascono perché, appunto, c'è gente che ha voglia di giocare a calcio. La Roma no. L'AS Roma nasce per «rappresentare» una città, la sua cultura e la sua identità. Il progetto aveva appunto questo obiettivo: una città, una squadra. Alla Lazio e ai laziali che, rispetto alle altre tre squadre, ebbero la forza per poter dire no, il ruolo dei reprobi, dei refrattari, degli Altri per antonomasia. Non più «gens romana», il copione non prevede che all'interno dell'Urbe possano esserci pluralismo, articolazioni, differenze.

Nel corso degli anni l'industria culturale - che proprio a Roma ha il suo centro - assorbe e amplifica il progetto. L'AS Roma diviene sempre più Roma tout court. I romanisti sono molti (tre tifoserie su quattro unificate, appunto, nel 1927), la massa dei tifosi fa da volano. I film (da Bonnard ad Alberto Sordi ai Vanzina, passando per molti altri), la radio (Orazio Pennacchioni) e le radio (ma quante sono quelle che «usano» il calcio, nella Capitale, anche per fini direttamente o indirettamente politici, quasi sempre di destra?), la tv e le tv: tutti convergono sempre più nell'esaltare il mito-Roma e nel creare il prodotto-Roma. Ha fatto impressione, poche sere fa, sentire Giulio Andreotti in televisione ripetere quasi alla lettera quanto Sordi diceva proprio a lui, nel film Il tassinaro (1983), occasione per una comparsata ammiccante di don Giulio: dopo decenni lo scudetto (quello del 1983, appunto) era tornato a Roma! A Roma, come se la Lazio, che lo aveva vinto solo nove anni prima, non esistesse...

In questa tifoseria già gonfia di orgoglio, celebrata e autocelebrativa, ma a lungo scarsa di vittorie, i trionfi di Cragnotti hanno avuto l'effetto di un elettroshock rivitalizzante: nel 2001 anche la Roma, anzi «Roma», vince. I «gladiatori» tornano, l'Urbe comanda, ecc. La stampa sguazza, le tirature salgono: i tifosi al Circo Massimo (non per i gladiatori, ma per il celebre spettacolo che «non proseguisce») sono - nei titoli, negli articoli - 500mila, un milione, due milioni. L'orgia mediatica pare inarrestabile. Persino questo giornale (vogliamo fare un po' di sana autocritica?) parla di «mutazione antropologica» (de che?), a proposito delle nuove «radiose giornate» dei festeggiamenti; ma tutti i giornali, le tv, le radio divengono un coro senza tregua. L'identità incrocia il mercato: compra la maglietta, non per andare allo stadio ma per indossarla tutti i giorni. Guarda la pay-tv, abbonati a Roma Channel (una struttura in gran parte gentile omaggio della Rai, cioè di noi tutti). Compra e appendi in macchina il pupazzo giallorosso. Compra le stoviglie della Roma, la sveglia della Roma, il caffè della Roma, il casco della Roma, la credit card della Roma. È degli ultimi giorni l'ultima chicca: in un paese già tristemente noto per essere l'unico al mondo in cui escono ben tre quotidiani sportivi, ora c'è un quotidiano (12 pagine!) rivolto solo ai tifosi della Roma che parla solo della Roma. Nel suo entourage anche alcuni «bei nomi» di uomini delle professioni e dell'intelligenza, per i quali quel giornale è un ninnolo, il secondo o terzo o quarto o quinto quotidiano della mazzetta giornaliera, ma che non si rendono conto del danno che fanno nel momento in cui tanta gente comune invece di comprare un quotidiano qualsiasi che anche parla del mondo e dei conflitti che lo attraversano, compra da qualche giorno solo il quotidiano che parla solo della Roma...

L'ipertrofismo identitario del tifoso romanista, la sopravalutazione di sé e della sua squadra, il suo vittimismo, dunque, non possono che crescere a dismisura, blanditi, aizzati, inturgiditi: la Roma è sempre e comunque uno squadrone, non può (ma perché? chi lo stabilisce?) vendere i «suoi» campioni, deve comunque stare «lassù», altrimenti fioccano, ridicole ancor più che vergognose, le interrogazioni parlamentari. Totti è il più grande giocatore del mondo, Cassano è il secondo più grande giocatore del mondo, l'uno è paragonato a Pelè, l'altro a Maradona. De Rossi è il pallone d'oro di domani, per dopodomani già s'intravede Aquilani... Ergo, se gli scudetti, le coppe e i palloni d'oro non arrivano, è colpa certo di un Complotto! Non è vero che in campo Totti è sempre sopra le righe e spesso gli vengono risparmiate le due ammonizioni a partita che meriterebbe. Non è vero (ora inizia a essere evidente) che Cassano è un caso così grave di fronte al quale al tedesco Voeller, poverino, non resta che invocare inutilmente «disciplina» (c'aveva provato anche Capello, ma la Società era stata magnanima...). E che forse vuole andare via, a fare gol e danni a Milano o a Madrid. Non si può scrivere che la squadra e la società sono fortemente ridimensionate, che gli schiaffoni sul mercato estivo sono stati tanti. Né che Voeller è una brava persona ma non è mai stato un grande allenatore. Insomma, non si può dire che l'«Impero» rischia di venire travolto non solo e non tanto dai «barbari», ma anche da quel «male oscuro» che fa parte del proprio Dna, che è la sua forza e la sua debolezza: dover essere non una squadra di calcio, ma il simbolo di una città, anzi della città. Eterna, per di più. E dunque un'ossessione, un dover essere, un destino che nel momento in cui non si avvera diviene una maledizione. E che in ogni caso produce una pressione ambientale terribile, insopportabile, e un parossismo in campo e fuori che tutto il mondo inizia davvero a non poter più sopportare (le sentenze della Uefa lo diranno chiaramente).

Modesta proposta: e se la Roma tornasse a essere solo una squadra di calcio? Se i canali tv e i giornali monotematici spegnessero la luce? Se non fosse più una religione o una fede e neanche una monocultura? Se fosse solo, per i suoi tifosi, una bella passione, una parte della vita, un interesse della domenica e del mercoledì, un articolo al giorno e forse due letti durante il cappuccino e non un film che dura sette giorni su sette, ventiquattro ore su ventiquattro, sogni (in giallorosso) inclusi? Non sarebbe possibile così un approccio più sereno alle vittorie e alle sconfitte che attendono, inevitabilmente, la Roma?