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Di Carvelli (del 16/02/2012 @ 09:52:09, in diario, linkato 754 volte)

La (bianca) poesia di Villa Borghese
di Roberto Carvelli

Nel momento in cui scrivo su Roma è caduta la soffice discesa della neve. Pochi giorni fa, invece, si è appreso della scomparsa di Wislawa Szymborska. Nel primo caso si è trattato di una previsione – che prima ha avuto tutta la forza titubante di una roulette – nel secondo di una inconfutabile asserzione. A Roma la neve ha una sua piccola casistica: 2010, 2005, 2004, 2002, 1999, 1996, 1991, 1986, 1985 e via così, andando a ritroso. La poetessa polacca, nobel alla letteratura nel 1996, è morta a ottantotto anni in una, non inusuale come a Roma, bianca e polare Cracovia una decina o una ventina (massime o minime) di gradi sotto lo zero. Di neve doveva saperne, lei. Certo più di noi che attendiamo ogni nuovo anno per fare di questa casistica di giorni bianchi una fila di anni più numerosi. Eppure nelle raccolte delle sue poesie che possiedo c’è pochissima neve. Forse quel che ci è più vicino non ci colpisce così come, invece, noi romani poco abituati al bianco della neve ci elettrizziamo solo nell’attesa. Poca neve dicevo nelle poesie di questa grande poetessa polacca ma molta morte – anche se mai disperata, amareggiata – qualche volta addirittura ilare: “Morire quanto è necessario, senza eccedere”. Persino un epitaffio, il suo: “Qui giace come virgola antiquata/ l’autrice di qualche poesia. (…)”. Una frase che forse in ragione del suo essere previdente avrà tolto ogni imbarazzo e incertezza agli inumatori dopo quelli della data mancante: 1 febbraio 2012. Nel momento in cui è stata scattata questa foto il viale degli ippocastani di Villa Borghese aveva questo giallo-marrone così autunnale e poetico. Nel frattempo avrà una poesia più bianca. E dei bambini la reciteranno tirando palle o facendo pupazzi per eternarla in gesti allegri e rari. Che perciò ricorderanno per sempre come io ricordo la neve del 6 gennaio 1985 e delle pallettate nelle tribune di un Lazio-Milan, poi sospeso per impraticabilità del campo. La neve avrà cambiato questo viale quel poco e per quel poco da farci pensare che persino i nostri giorni romani sempre uguali, uguali non sono. Anche se, per saperlo, basterebbe dotarci di un’attenzione più concentrata e lenta, fotografica. Anni fa a Villa Borghese fu dedicato un bellissimo libro-documento che catalogava immagini private raccolte negli anni del parco. Con tutto l’avvicendarsi di volti di famiglie e gruppi di persone colti nel loro saltuario passaggio festoso o festivo. Una specie di storia fotografica nelle epoche di cui non ricordo immagini con neve ma immagino che ce ne fossero. Una storia cominciata all’inizio del secolo XVII, continuata con il re Umberto I che la donò alla città e arrivata fino all’oggi di pappagalli verdi, biciclette o runner senza requie, coppiette e solitari foraggiatori di piccioni. Non so se la Szymborska, quando venne a Roma, almeno quella volta in cui arrivò per leggere al Goethe e andammo a sentirla e vederla così piccola dietro quel tavolo, silenziosa e lontana senza boria dal clamore di quel tributo di folla, sia stata portata in questa villa. Sono domande piccole o ricerca di risposte troppo piccole per avere un peso. Niente a che vedere con le sue questioni essenziali ma prudenti o imprudenti a seconda del caso. Anche se talvolta poi pentite: “Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte”. Niente a che vedere con le sue conclusioni universali che hanno reso la sua poesia trasversale e ricca di piani di lettura e di significati adatti a orecchie e occhi diversi. Versi che rimarranno nella nostra memoria come conclusioni di cui facilmente ci continueremo ad appropriare per la nostra piccola religione laica: “Devo molto/ a quelli che non amo./ Il sollievo con cui accetto/ che siano più vicini a un altro” o “Il cosmo è quel che è,/ ossia perfetto./ E i burloni non glielo perdoneranno mai” o “Non conosco la parte che recito./ So solo che è la mia, non mutabile” o “Anch’io non ho scelto,/ ma non mi lamento”. O anche: “Sono entrambi convinti/ che un sentimento improvviso li unì./ È bella una tale certezza/ ma l’incertezza è più bella”. Ma forse oggi ci dobbiamo lasciare con questi versi “Non c’è vita/ che almeno per un attimo/ non sia immortale./ La morte/ è sempre in ritardo di quell’attimo”. Anche se, per dirci un arrivederci che non suoni doloroso, non c’è nulla di meglio dell’apertura di Nulla due volte: “Nulla due volte accade/ né accadrà. Per tale ragione/ nasciamo senza esperienza,/ moriamo senza assuefazione”. E, senza assuefazione, ci lasciamo qui senza sapere o sapendo che ci sarà ancora un’altra neve a Roma. Che ci stupirà un seconda (non seconda) volta.
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