American hustle eccetera eccetera
“American Hustle” rischia di essere il film della stagione o uno dei. Al di là del riuscito bagno vintage e della corposa e ben selezionata compilation che rendono credibile l’ambientazione e leggero il notevole minutaggio della pellicola è la sceneggiatura senza cadute a fare del film un riuscito kolossal della bugia. Una scrittura con un sistema ad anelli (e gradini) che raccorda con anticipazioni e colpi di scena le fasi della storia. Un finescena proietta nel successivo e uno dentro l’altro come in una matrioska che nasconde inganni nell’inganno. Tanto che, in ultima istanza, il tema finisce per essere “chi ha davvero ingannato chi”. E: quale inganno tiene a sé ogni inganno con una morale finale non poi così retorica. Gli attori sono superlativi. Nelle scene aleggia una sensualità trattenuta e mai banale a dispetto delle tentazioni ben esibite e scollate. Ma non è il sesso (trattenuto e dilatato) il motore dell’azione e neppure lo sono i soldi. Alla fine – e questo è già il primo non scontato elemento unificante – sembra reggersi tutto sul chi fotte chi senza non darlo poi tanto a vedere. Il continuo slittamento bene/male, polizia/crimine non è cosa nuova ma il modo in cui viene declinato finisce per esserlo o sembrarlo. Insomma tanti buoni motivi per fare un po’ di bagno di folla dopo i cinema vuoti dei mesi passati. Ma forse la ritornata attenzione non è merito delle sale rinnovate quanto piuttosto di film di qualità migliore come “I sogni segreti di Walter Mitty” (semplice e un po’ retorico ma ben fatto), “La mafia uccide solo d’estate” (tutto sommato un modesto e riuscito esperimento di autofiction in pellicola), “L’ultima ruota del carro” (della serie: il ritorno del cinema comico d’autore) e “Still life” (lento e telefonato nella scrittura della storia ma credibile in quella del personaggio principale).
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