Testo parzialmente letto per l'officina di BombaCarta sul legno.
Per dire queste parole sono stati abbattuti degli alberi. Magari anni fa, per scrivere su questi fogli, altri fogli di altri alberi si sono sacrificati. Magari in un ciclo di morte-vita ripetuto, il destino della letteratura ha eternato ed eterna il legno. In qualche epoca contingentando penuria, in altre scialacquando irresponsabilmente un surplus. Come scrive Josif Brodskij (“Lettere della dinastia Ming”): “E’ strano, in giro c’è/ sempre più carta, sempre meno riso”. E’ strano a maggior ragione oggi: molto riso, molta carta, molti mobili truciolari componibili. Meno alberi. Qualcuno consapevole o inconsapevole ha saputo disobbligarsi per questo sacrificio della carta. Lo ha fatto, ad esempio, Mario Rigoni Stern che ha dedicato al suo bosco trapiantato un arboreto, una tassonomia di voci e ritratti botanico-estetico-letterari. Partendo dal colpo d'occhio davanti alla sua casa ha creato, in dimora e in verbo, un'arca salvata. E che salva, come allude il titolo di eco rinascimentale. Negli anni lo scrittore pianta alberi che vede crescere e che racconta. In qualche caso, con lo sguardo lungo di chi sa che la vita degli alberi ha più respiro, immagina il futuro in crescita di quegli arbusti oltre lui. E il tempo ha già dato ragione alla sua profezia. Scrive nella nota che accompagna il libro nel 1996: “Anche gli gnomi dentro il buio della Grande Montagna cantano: ‘Sette volte bosco, sette volte prato,/ poi tutto ritornerà com’era stato’. Ma intanto i nostri alberi sono qui, dal Paleozoico; quando gli uomini comparvero sulla terra loro c’erano da milioni di anni per prepararci alla coabitazione”. In verità, tutta l'opera dello scrittore di Asiago, passata al setaccio delle nuvole delle occorrenze lessicali evidenzierebbe la parola bosco in corpo 72. A tutta la sua produzione passa di lato il bosco che salva e nasconde. In “Arboreto salvatico” i profili che descrive diventano non più sfondi ma primi piani, ritratti a futura memoria. Il pantheon arboreo abbandona lo sfondo e chiede l’intera scena per sé. La merita per longevità, per capacità di incarnare la sua cedevolezza circolare ai cicli di nascita e morte, vera perpetuazione della caducità finita e infinita. Linea di collegamento tra profondità nascosta e vertici irraggiungibili: asse del mondo. Come un dito che traccia una linea dal basso ctonio all’alto dell’aspirazione. E lì, sotto quelle fronde, per qualcuno il luogo della saggezza illuminata, sito dove si trova la Via. Ma nel bosco si perde e ci si perde anche. E questa è già letteratura. E vita. O morte. In Giappone c'è una zona in cui gli adolescenti si suicidano per via di bosco. Succede per la precisione ad Aokigahara, ai piedi del maestoso monte Fuji. 123 volte l'anno secondo le statistiche. Un suicidio ritualizzato che contempla persino l'allestimento di una camera mortuaria all'aperto con gli oggetti cari di un'infanzia già dolorosa e definitiva. Un amico fotografo andò a impressionare questo mistero doloroso. Il bosco è topos di smarrimenti da sempre. Nella sua traduzione da racconto popolare il bosco è il primo dedalo in cui perdere la via. Un labirinto affollato di uguaglianze. Ma gli alberi singolarmente sono stati cantati e resi epici. Unitariamente l'albero ha una buona carica vitale, bisogna riconoscerglielo. Per riconoscenza e spirito di salvezza si ripianta. Jean Jono e Rigoni Stern danno l'esempio. In autofiction. Uno raccontando del sogno inflessibile del pastore-contadino Elzéard Bouffier che modificando il paesaggio realizza una speranza rivoluzionaria per quanto umana. La prova che un piccolo gesto, serializzato compie una grandiosità più che umana. Rigoni Stern, lo abbiamo detto, effettuando lo stesso trapianto e scrivendone un atlante. Ma il bosco è persino un supermercato pervio o impervio. Amplifica le sensazioni e conduce riflessioni vitalistiche o mortali. Da una parte Thoreau, dall'altra Cassola. Aspirazione in un caso, non poter fare altrimenti nell'altro. Per una via si va nel cuore del mondo, per l'altra nel gorgo dell'infelicità. Lo sapeva Cassola che il duro lavoro del disboscamento non ha molte parole. Che, mentre la scure si abbatte sul legno, la mente può vagare. Nelle pause della dissipazione sfatta dei tagliatori un ricordo trasformarsi in una pena. Non così a Thoreau di Thoreau: il libero pensatore rappresenta se stesso nella pace inebriante della comunione con i boschi di Walden a Concord. Le sue righe più famose: “Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto. Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici: se si fosse rivelata meschina, volevo trarne tutta la genuina meschinità, e mostrarne al mondo la bassezza; se invece fosse apparsa sublime, volevo conoscerla con l’esperienza, e poterne dare un vero ragguaglio nella mia prossima digressione”. Di nuovo il basso. Di nuovo l’alto. L'uno e l'altro, Cassola e Thoreau, prima di cominciare la loro esperienza nel bosco, fanno costruire al loro personaggio o costruiscono nel legno la loro dimora. Legno prima del legno. Per entrambi sono ricoveri a tempo. Per i tagliatori dello scrittore toscano anche di fortuna. Per il filosofo americano la ricerca di un alloggio primitivo ed essenziale. Cassola ci fa conoscere l'intero ciclo della produzione: dalla scelta del taglio alla carbonaia. Thoreau ci fa ragionare sulla differenza tra la capanna di prima accoglienza autoprodotta e le case inutilmente ben edificate dei suoi contemporanei (parla, in definitiva, di quella che potremmo chiamare un’alienazione architettonica e urbanistica). Sul personaggio di Cassola lavora, invece, una nostalgia domestica scatenata da una medesima capanna (“Il bosco era buio e inospitale, magari tirava vento e scrosciava la pioggia, ma lui aveva il conforto di pensare che nella cucina la luce illuminava nitidamente l’acquaio pulito e la tavola apparecchiata”). Gli alberi del taglio acquistato dal protagonista dell'italiano sono lì davanti e formano la parola "lavoro" e ispirano, persino, tormenti suicidi (come per gli adolescenti giapponesi) da che erano stati una sfida febbrile (“Guglielmo fu il primo levarsi in piedi. Cominciava a provare ora quello che le tenebre prima, la fatica poi avevano tenuto in sordina: il desiderio di raggiungere il taglio, di prenderne possesso, di iniziare il lavoro” e poi “Non gli era mai accaduto di sentirsi così disperato, nemmeno nei giorni della disgrazia. Per qualche momento farneticò addirittura: pensava di sedersi lì in terra e lasciarsi morire. ‘Rosa,’ mormorò. ‘Rosa,’ disse ad alta voce. ‘Rosa, aiutami tu, mandami un po’ di rassegnazione!’ Un rumore di passi lo fece voltare. Distinse la brace ardente di un sigaro e una figura confusa, che veniva su per la strada. ‘Vuoi una mano, Guglielmo?’ disse l’uomo passandogli accanto. ‘No, grazie,’ rispose Guglielmo. ‘Faccio da me.’ Aspettò che l’uomo si fosse allontanato, rimise il sacco in spalla e riprese il cammino. Pensava che Rosa avrebbe dovuto aiutarlo. Non era possibile continuare così. Lassù dal cielo doveva dargli la forza di vivere. E guardò in alto. Ma era tutto buio, non c’era una stella”.). Gli alberi in Walden aiutano a scrivere la parola "vita" in caratteri maestosi consigliando una rivoluzione delle abitudini che è anche rivoluzione del sentire. L’uomo che arriva nella scena boscosa viene avvertito come uomo e accolto nella sua partecipazione solidale. Ancora Thoreau: “Gli uomini difficilmente abbandonano qualcuno, dovunque egli si trovi. Mentre vivevo nei boschi, ebbi più visitatori di quanti ne abbia avuti mai in qualsiasi altro periodo della mia vita; voglio dire che ne ebbi alcuni”. Due scene simili, due reazioni diverse. Ancora il basso. Ancora l’alto. Una volta ancora alberi che salvano o indicano una via e boschi che fanno smarrirla. I giorni dei tagliatori di Cassola non passano. Uno dei suoi protagonisti s’industria per trovare una soluzione di logica semplice: “Passa la vita, vuoi che non passi un giorno?”. La logica di Thoreau chiama a raccolta l’universo e ci mette in mezzo l’uomo nella sua solenne semplice grandiosità. E, invitando a realizzare il pieno compito della sua condizione, scrive: “Possiamo non arrivare in porto nel tempo stabilito, ma seguiremo il vero cammino”. Parole che non sono arrivate al poeta Brodskij che nella poesia che abbiamo citato in apertura scrive: “Un viaggio di mille li incomincia da un passo’/ dice il proverbio. Peccato che da esso/ non dipenda anche il viaggio di ritorno, più lungo assai/ di mille li, a dire il vero. Specialmente contando da zero./ Mille, duemila li. Mille vuol dire ‘mai/ lì’, vuol dire lontano da i tuoi cari,/ e il morbo dell’insensatezza passa ormai dalle parole ai numeri; specialmente agli zeri”. Come al solito l’importante non è partire ma continuare ad andare. Non è saper contare ma continuare, fino a trovare il risultato che scioglie l’arcano della condizione umana. Dentro e fuori dal bosco.
PS: Gli alberi da cui sono venute queste parole sono stati impiegati per stampare “Il taglio del bosco” di Carlo Cassola e “Walden o vita nei boschi” di Ralph W. Thoreau. Sono due edizioni molto vecchie che rileggo da anni e ora hanno preso un odore dolciastro che mi fa pensare alle loro origini d'albero e al suo taglio odoroso (anche se in realtà viene dalla degradazione di alcuni agenti che si danno per allisciare la carta e degli inchiostri ma mi piace pensare che sia originato dal legno antico). E’ un profumo che non ha l’edizione in volume di Rigoni Stern. Carta molto sottile e quasi inodore che non sembra rimandare ai suoi precedenti frondosi. Così pure Jean Jono “L'uomo che piantava gli alberi” che ho letto prima in una casa-Comune in mezzo ai boschi umbri e acquistato solo successivamente. Non ha ancora il sentore di legno dei primi due. Profumano anche i versi di Brodskij (“Poesie”). Per sapere del bosco dei suicidi giapponesi e per tutto il resto non è stato tagliato un albero.