il manifesto di ieri. Massimo Raffaeli. Mi sembra un buon intervento. Serio e misurato nelle premesse. Del libro ancora non scriverei non avendone ultimato la lettura (per ora posso solo dire che è un ottimo esordio) ma lo recensirò sul prossimo BLUE.
Radiografia del bestseller Piperno
Né capolavoro né romanzo fallito, Con le peggiori intenzioni è l'esordio di un narratore che, chiacchiere a parte, non ha creato alcuna «generazione», né si avvicina ai romanzieri cui è stato paragonato. Notevole la sua tenuta, sebbene affetta da sbalzi di temperatura stilistica
MASSIMO RAFFAELI
Èdifficile parlare di un libro e valutarlo avendolo letto dopo la incorporazione e transustanziazione che i media hanno operato su di esso mutandolo in best seller: equivale al fatto di assistere a una partita di calcio dopo averla vista sezionare per ore alla moviola e averne sentito straparlare per giorni nei processi televisivi, quando il gioco è divenuto un'eclissi e un pretesto che dia luogo agli impulsi della mitologia o, nel caso opposto, della distorsione e della allucinazione. Questo, per certi versi, è anche il caso del romanzo di Alessandro Piperno, Con le peggiori intenzioni (Mondadori, pp. 304, Euro 17.00), un esordio accompagnato da un chiasso mediatico di cui si ricordano pochi precedenti, compresa un'intera trasmissione della «7» e una lunga intervista all'autore comparsa sul magazine del Corriere della sera con tanto di copertina, sul serio sciagurata, che voleva alludere a una inesistente Generazione Piperno. Due sono almeno gli inconvenienti per il lettore. In primo luogo alla forma del testo, e al suo nudo dettato, è subentrata la singolare silhouette di Daniel Sonnino, nome del protagonista del romanzo, con le sue caratteristiche e i suoi modi di dire, come fosse una decalcomania ovvero un portavoce generazionale, cui si è presto sovrapposta la fisiognomica di Alessandro Piperno in persona con tutti i suoi pensieri sul mondo (quanti anni ha, cosa fa, cosa mangia, come vive e chi vede, se è tifoso della Lazio e perché etc.): ciò ha giovato enormemente alla vendita del libro ma ne ha retrocesso ipso facto la disamina a metodiche inessenziali e primordiali, con rare eccezioni. ( Marcel Proust, cui Piperno ha dedicato anni fa uno studio molto intelligente, criticava Sainte-Beuve accusandolo di usare le biografie degli scrittori in modo meccanico e parassitario: nel caso attuale, come per ogni best seller, ci si è contentati di ancor meno, anzi del minimo, avallando la chiacchiera sul personaggio, il medesimo che firma il romanzo, nato a Roma nel 1972 e docente all'Università di Tor Vegata, e quello da lui simulato sulla pagina). Il secondo inconveniente, che procede direttamente dal primo, ha comportato la sostituzione del giudizio critico (basta aprire Internet per verificarlo) coi surrogati della dichiarazione di fede, l'aut-aut di chi da un lato scomoda Philip Roth o Morderai Richler e dall'altro sospetta l'apocrifo, ritenendolo uno smaccato falso d'autore.
A una lettura il più possibile spassionata e lontana dal chiasso, Con le peggiori intenzioni non appare né l'una né l'altra cosa, vale a dire né un capolavoro né un libro fallito ( e nemmeno una costruzione mediatica corvèable à merci); semmai, si tratta tanto di un esordio notevole per tenuta e «fiato» narrativo, quanto di un libro imperfetto per asimmetria di costruzione e per gli sbalzi della temperatura linguistico-stilistica: ad ogni modo Piperno ha, dello scrittore autentico, l'energia che non diminuisce sotto sforzo e appunto il fiato del fondista, la capacità di stare sulla pagina e lavorarla in terza dimensione, oltre ad uno spazio-tempo tutto suo, intimamente posseduto, cui ritorna con ossessione e si direbbe per costrizione psicofisica. È la Roma dei Parioli, dove il protagonista Daniel Sonnino è nato trent'anni fa e dove ha visto diramarsi, in avanti e all'indietro, gli ibridi del destino di chi discende tanto da una couche ebraica, cosmopolita e per così dire speziata di qualsiasi avventura esistenziale, quanto da una schiatta di cattolici marchigiani, solida e laconica eppure latrice di discendenze imprevedibili.
Perciò il romanzo si divide in due parti, tuttavia diseguali, che stanno fra loro come possono starci una saga familiare, dove l'io narrante si dissimula nei ricordi di un bambino oppure funge da docile catalizzatore della memoria, e invece un romanzo di formazione vero e proprio, quando il protagonista, adolescente e poi adulto, chiede un senso al suo vivere e crescere, ne valuta retrospettivamente il prezzo e ne riconosce la fatalità. Nel romanzo di famiglia, cento pagine compatte e virate nei colori di una stupefazione che assorbe la nostalgia, si accampa la vicenda del nonno Bepy Sonnino, vale a dire una vita di eccessi gloriosi e caduchi, una parabola che tiene dentro tutta l'esistenza e la dilata per cerchi concentrici, fino a smemorarsene e perderla nel punto in cui la generosità e lo spreco sono una cosa sola, così come il valore e il disonore, per squassante paradosso, coincidono.
Bepy vive alla potenza ennesima (le donne, il denaro, gli amici, lo stuolo dei sedotti e degli adulatori) ma il suo è un esempio tanto eccessivo e nella sostanza suicida da non lasciare eredità possibili se non nel disamore e nel rancore, ovvero in un rammarico, agli occhi di Daniel, che equivale a un implicito senso di frustrazione e impotenza, come di chi riconoscesse nella totalità perduta il crisma di una propria e coatta parzialità; e infatti: «La vita, a sentirgliela descrivere, è corsa su un carro dorato. La sua aggettivazione è schiava del grado assoluto, così come gli avverbi dell'iperbole: `egregiamente', `mirabilmente', `stupendamente'. E, d'altronde, anche dopo, nella disgrazia, Bepy non perderà l'abitudine del grande artista pop di trasformare la merda in oro.»
Dunque è difficile sopravvivere a Bepy. Pur mantenendo lo stesso perimetro del romanzo familiare (anzi deducendone per esteso le figure implicite e ulteriori) il romanzo di formazione di Daniel è come fosse orfano del vigore e della pienezza che prima gli garantiva l'ombra invadente di Bepy. Ogni personaggio ne viene amputato o meglio opacizzato; lo stesso percorso formativo di Daniel che culmina in un grande amore andato a male, la sua epica dell'irresolutezza, patisce una specie di impasse e un progressivo raffreddamento. Se prima Bepy attirava i personaggi astanti nel vortice, o nel suo cono d'ombra, facendone quasi il proprio colloide, qui le figure che entrano ed escono dalla vita del protagonista (la madre, gli zii, gli amici del liceo, la Dafne sempre fuggitiva e infine catastrofica) sono più riconoscibili e torniti ma anche più frontali e meccanici. Magari più «tipici» di quell'ambiente e di quel passato prossimo, però decisamente meno vividi e liberi: infatti, più la ricostruzione d'epoca si fa sottile e dettagliata, più senti che l'effetto è voluto invece che naturalmente trovato; e allo stesso modo, man mano che la pagina si nutre di dettagli storico-ambientali e digressioni, senti che si ingessa e procede scontando una visibile inerzia. (Ad esempio i numerosi richiami al fatto che il protagonista sia un professore universitario a contratto e che abbia scritto un libro da titolo Tutti gli ebrei antisemiti, se non vogliono essere strizzate d'occhio a Roth, sono semplici decorazioni, un ingombro). La stessa inerzia da cui sembrano fuggire le pagine finali del romanzo, quando Daniel diviene adulto sfregiando il suo ambiente e, alla lettera, compromettendosi: ma pure questo, in chiave struggente e autoparodistica, è un modo per tornare a Bepy, e celebrarne il destino.