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La restaurazione. Moresco su www.nazioneindiana.com
Di Carvelli (del 20/04/2005 @ 16:25:24, in diario, linkato 934 volte)

Da leggere!!!

La restaurazione

di Antonio Moresco

rembrandt.jpgNazione Indiana sta organizzando per il mese di maggio, alla Fiera del libro di Torino, un incontro sull’editoria e, più in generale, su quanto sta succedendo in questi anni nel campo della cultura e delle sue proiezioni. Questo intervento vuole essere un contributo iniziale alla discussione.

Viviamo in un periodo di pesante restaurazione. Siamo alle prese con un’intossicazione che attraversa le strutture della vita, dell’organizzazione sociale e professionale, delle forme economico-politiche e democratiche, delle finalità scientifiche e tecnologiche, della religione, dei media, del pensiero, della cultura, dell’arte…
La domanda è questa: dobbiamo aspettare 10 o 20 anni per vederlo scritto nei libri o lo possiamo, lo vogliamo, lo dobbiamo vedere e dire lucidamente adesso, mentre stiamo vivendo questa situazione?
E ancora -detto in un altro modo- abbiamo o no la responsabilità di mostrare la macchina in azione nel momento stesso in cui agisce o dobbiamo mettere la testa sotto la sabbia, tirare a campare e aspettare di vederla inoffensivamente descritta domani, come abbiamo letto -seduti in poltrona o prima di addormentarci- le narrazioni di altri periodi di restaurazione descritti da chi ci è vissuto dentro? E a leggere sembrava tutto chiaro ed era facile stare dalla parte dell’autore che ce ne mostrava il peso sulla vita umana e la sofferenza e il prezzo e ci dicevamo: “Cazzo, ma com’erano mediocri, ciechi, vili, trasformisti e corrotti gli uomini di quel tempo!”

Solo in politica?

In questi anni sembra abbastanza facile vedere e ammettere l’evidenza di questo fenomeno nel campo economico, politico, religioso ecc. E ci sono molti che, per fortuna, non hanno nessuna difficoltà a denunciarlo ai quattro venti e anzi a fare di questa denuncia parte integrante del loro status e del loro target. Ma provate a dire che le stesse cose stanno succedendo -e non da oggi- nel campo della cultura, dell’editoria, dei giornali ecc… e allora vedrete che le stesse persone cominceranno a fare mille distinguo, vi diranno che è un’esagerazione, che siete apocalittici o addirittura vi daranno addosso. Per pigrizia, per spirito di cordata e di gruppo, per conformismo, per paura di restare isolati, perché anche loro si sono trovati ormai il loro piccolo ruolo negli ingranaggi di questa macchina o dei suoi spazi residuali, perché, dopo averla inseguita per molto con la lingua fuori, sono arrivati finalmente ad avere la loro fetta di potere all’interno e se la tengono stretta. Anche se questo vuol dire essere del tutto funzionali alle stesse logiche imperanti che denunciano in altri campi ma che poi sposano quando si tratta del proprio piccolo campo. Conclusione triste, patetica -tra l’altro- per una generazione che si è nutrita di miti intellettuali critici e rivoluzionari e che ora o si è chiusa in un moralismo rancoroso, elitario e conservatore o si è ridotta a fare la mosca cocchiera e la guardiana dell’esistente e dello status quo e dell’abbassamento degli orizzonti nel campo nevralgico della cultura e dell’espressione artistica e di conoscenza, diventando addirittura, in molti casi, più realista del re.


Ai tempi di Stendhal sì!

Facile vedere questi fenomeni e la loro azione sulle menti e sui corpi nei romanzi di Stendhal, per esempio. Più difficile e doloroso vederlo oggi sotto il proprio naso. Se si parla di qualsiasi altra cosa, della vergogna politica e del disonore cui è sottoposta l’Italia dall’attuale lobby di governo, dell’uso scandaloso dei media, dell’arroganza, delle leggi ad personam, della macchina pubblicitaria e di manipolazione dispiegata, dell’economia criminale, della mafia, della camorra ecc… sono tutti pronti a indignarsi e non hanno difficoltà a vedere come stanno le cose in Italia in questi anni. Ma se si passa a parlare di logiche affini che attraversano quasi senza distinzioni di connotazioni politico-culturali il campo dell’editoria e il cosiddetto mondo della cultura, allora no. Lì non esiste restaurazione, lì va tutto bene, lì è come una piccola oasi dove tutto questo non avviene, la “cultura” è anzi una sorta di naturale antidoto e di zona franca e di opposizione negli anni plumbei che stiamo vivendo, non esiste anche qui una pesante restaurazione giocata sui puri meccanismi economici e monopolistici, sulla selezione di strutture e di forme, su enormi operazioni pubblicitarie sinergiche, su censure operate dalle leggi solo apparentemente impersonali del mercato, su autocensure introiettate e fatte proprie prima ancora che vengano esplicitamente richieste, sulle limitazioni di libertà reali mentre restano in piedi quelle di facciata.

I periodi di restaurazione fanno venire fuori il peggio dalle persone. La loro paura, la loro grottesca disponibilità al compromesso, la corruzione. Vedi con sofferenza le persone cambiare giorno dopo giorno, trasformarsi, piegarsi a certe logiche, dietro la maschera del buon senso o dell’arroganza. Si vive la continua sofferenza di assistere allo spettacolo di persone -anche sensibili e intelligenti e che avrebbero tutti gli strumenti per capire cosa sta succedendo- che invece si fanno prendere dalla paura di perdere chissà quale treno e quali occasioni e così si arrendono, si buttano via, entrano in logiche stritolanti. Vendendosi in molti casi per niente. Le loro stesse persone, i loro corpi e i loro volti e le loro menti subiscono una torsione, diventano rapidamente irriconoscibili, si cercano un’identità che pare a loro meno difficile da gestire nel bazar di quelle che vanno per la maggiore. Tanto più in questa epoca in cui la restaurazione non è giocata solo nella dimensione politico-sociale, come nell’Europa dopo il Congresso di Vienna, ma opera anche nelle strutture più intime e addirittura occulte, nel bios, resettando, deprogrammando, duplicando, clonando. Per questo è così difficile accettare di vedere quello che sta veramente accadendo.

Non che nei periodi opposti o che appaiono tali, sotto la spinta di forti dinamiche collettive e illusioni fatte proprie da molti siano meno pesanti i condizionamenti e le coercizioni. Non che, anche allora, le cause non possano essere illusorie o sbagliate e la mente e i corpi degli uomini non vadano altrettanto ciecamente all’ammasso. Ma questo non diminuisce di un grammo il peso della nostra responsabilità e il bisogno di lucidità nei periodi in cui, con ogni tipo di copertura pubblicitaria e di mistificazione e in una fase di ripiegamento e di distrazione epocale, si usa da parte di pochi l’arma della sopraffazione, del condizionamento sistematico, dell’inganno, dell’illusionismo e della paura per tenere in scacco le vite e cancellare in esse il ricordo stesso delle loro possibilità di creazione, di libertà e di invenzione.


Gli alibi

Nel campo dell’editoria e del giornalismo culturale, siccome il personale è formato da intellettuali, si coprono le proprie pratiche andando a ramazzare teorie del passato e usandole in modo improprio e grottesco in una situazione diversa. Alcune di queste sono così generalizzate da diventare luogo comune. Si leggono continuamente sui giornali ridicole professioni di gramscismo da parte di vallette del Festival di Sanremo, filosofi in disarmo ecc. Praticano l’ottundimento di massa e traggono da questo la loro mercede e poi dicono che sono “nazional-popolari”. Proprio adesso che -guarda caso- non c’è più né la Nazione né il Popolo! Se ne stanno al caldo dentro macchine di consenso drogate, in grado di sedare e rimbecillire il “popolo” che hanno sottomano oggi e di elargire laute ricompense ai propri servi, e questo sarebbe ciò che intendeva il povero Gramsci scrivendo dalla sua prigione. Tutte le epoche di restaurazione sono così, sia quelle che si fondano su strutture ideologiche e politiche scopertamente totalitarie e violente sia quelle giocate su altre forme di coercizione e consenso.

Nel campo dell’editoria si agita l’alibi che non ci sarebbe mai stato tanto pluralismo come adesso, che c’è posto per tutti, che ci sarebbero ancora spazi riservati a cose che si muovono in direzione diversa -e in un certo senso è vero che ci sono. Ogni funzionario editoriale addita a propria discolpa e alibi qualche buon libro che pure ha pubblicato, i suoi tre poeti, ecc -e anche questo è vero. Ma tace sul funzionamento generale della macchina in cui si trova e che pure conosce molto bene, che rende sempre più ristretto, aleatorio e inoperante lo spazio in cui si muovono invece le manifestazioni in controtendenza, per il funzionamento implacabile e invasivo della macchina e per l’occupazione atmosferica di gran parte degli spazi reali e delle sedi in cui si formano le strutture di giudizio.

Un “pubblico” manipolato e forgiato ed esibito poi come alibi, col quale vivere un rapporto servo-padrone rovesciabile all’infinito. L’annullamento della responsabilità individuale e la resa allo spirito del tempo e a ciò che sembra al momento vincente. Come se la narcosi generale fosse un alibi per non dire nulla, non cercare nulla, non creare nulla con la propria persona, la propria voce e la propria forma, per non assumersi la responsabilità di dire come stanno veramente le cose solo perché la macchina è forte o almeno così appare. E la vita è breve. E ce n’è una sola. E bisogna cercare di salire sui carri vincenti, o che sembrano tali.


Popolare sì popolare no o qualcos’altro?

Negli ultimi mesi si è sviluppato un vivace dibattito, sui giornali, alla radio e in rete, sullo stato dell’editoria e sulle sue logiche, dove però si è mirato in molti casi a spostare l’attenzione su altri temi (generi letterari sì generi letterari no, popolare sì popolare no, destra e sinistra, élite e masse, Gramsci ecc…) tentando di imbrigliare il dibattito dentro piccole griglie collaudate e fuorvianti. Per nascondere l’aspetto bruciante della denuncia e la radicalità e umanità che la muove. Una confusione di temi e di piani per dimostrare che chi dice certe cose non può che essere un passatista e un catastrofista elitario, come la seppia quando si sente individuata e aggredita emette attorno a sé una nube invisibilizzante di inchiostro. Ma, al di là delle pezze d’appoggio che vengono sempre usate in questi casi, occorre dire che, se guardiamo indietro anche solo al secolo appena passato, la situazione è tale che quasi tutti gli scrittori più grandi del Novecento (Kafka, Proust, Joyce, Musil, Faulkner, Beckett…) oggi non verrebbero più pubblicati dagli editori e dai loro funzionari (che pure continuano a venderli nelle edizioni economiche e a ricavarne profitto). Per ragioni di copie vendute e di tirature, per decisioni economiche superiori -vi diranno- quando non addirittura per un’idea piccola piccola, duplicata e parodistica di realtà. O sarebbero costretti in zone così marginali e asfissiate da risultare invisibili e inoperanti in mezzo alla massa cartacea pompata che si mangia tutto. Occorre dire che queste stesse persone che ricoprono ruoli significativi nell’editoria e che si sono magari formate su questi autori oggi si rifiuterebbero di pubblicare i loro libri. Andrebbero a Praga a dire a un signore magro e con le orecchie a sventola che i suoi primi due libri hanno venduto solo 200 copie, impossibile pubblicarlo. Perché i nuovi parametri editoriali parlano chiaro: con una previsione di meno di 5000 copie per un grande e medio editore non vale la pena di pubblicare. Andrebbero nello stato del Mississippi a dire ad un alcolista poco più che trentenne che ha già scritto L’urlo e il furore e Luce d’agosto che, in seguito a una ricerca in rete, hanno constatato che i suoi libri hanno venduto solo un paio di migliaia di copie nell’intero territorio degli Stati Uniti e nell’arco di molti anni, impossibile pubblicarlo. Ma che loro non si sentono per niente in colpa, tanto troverà comunque qualche piccolo editore che stamperà il suo libro e chi proprio lo vuole potrà alla fine trovarlo scaffalato in qualche punto più o meno nascosto delle librerie. Ma poi -detto in confidenza- nei suoi libri non si capisce un cazzo! Non se ne rende conto? Mi scusi, ma lei se l’è andata proprio a cercare! Chi si crede di essere? Non ha mica vinto il Nobel! Scriva libri più facili, più vicini al gusto del pubblico e a quella cosuccia che noi abbiamo stabilito essere “la realtà”, e allora vedrà che verrà premiato! Diventi anche lei un clone e vedrà che magari -se il caso non favorirà un altro clone più fortunato- un giro in giostra può toccare alla fine anche a lei.

A me tutto questo continua a sembrare inaccettabile, abnorme, spaventoso, agghiacciante, una situazione alla quale non ci si può rassegnare. Grandi macchine editoriali e produzioni cartacee cresciute a dismisura, attraverso le sinergie messe in atto coi media e altri usi pilotati dello spazio e del tempo, hanno svuotato o ridotto ai margini la felicità e la forza creativa configurante della nuda parola e della sua spinta di allagamento, percepita proprio per questo come inaccettabile, indomabile, incontrollabile, interferente.

Lo spettacolo che abbiamo sotto gli occhi è di una totale e grottesca ma anche liberatoria chiarezza. Cosa deve ancora succedere perché i realistici funzionari di ieri, scavalcati fatalmente sul loro stesso terreno, si rendano conto del piccolo ruolo che hanno svolto finora, delle nuove figure che stanno emergendo e sono anzi già emerse anche dal vuoto che loro stessi hanno contribuito a creare, che hanno lavorato soltanto per il re di Prussia?


C’è solo questo?

Per fortuna non c’è solo questo. Non tutto si muove in questa direzione. Esiste anche qualcosa che viaggia in una direzione diversa. E mai come adesso. Persone che -ciascuna a suo modo- scrivono senza arrendersi, librai che non accettano di trasformarsi in venditori di saponette, editori nuovi che nascono o si rafforzano cercando di seguire altre strade, singole persone che lavorano anche all’interno della grande editoria e dei giornali e della nuova frontiera della rete animate da un diverso atteggiamento e da una vera passione. Perché ogni gesto è importante, ogni persona -ovunque si trovi- può fare la differenza, gettare un seme, purché non si nasconda come stanno veramente le cose e com’è fatta la macchina in cui si trova e si muova dentro di essa con lucidità, cercando di cogliere le sue crepe, le sue fessure, liberando controspinte, fratellanza, coraggio. Esistono anche persone così, in questi anni, e allora può avvenire qualcosa di imprevisto, di incalcolato, qualcosa che non doveva nascere nasce, qualcosa che non doveva passare, passa.

Noi vorremmo andare a un confronto soprattutto con queste persone e queste realtà che si muovono controcorrente.

Nell’immanenza di questo incontro e di questo confronto le domande che caparbiamente bisogna porre sono: è vero o non è vero che questa situazione di restaurazione riguarda non solo la dimensione politica, economica ecc ma anche quella culturale e artistica e delle sue libertà e proiezioni? E’ vero o non è vero che chi opera in questo campo seleziona, cerca, promuove e quindi anche -implicitamente o esplicitamente- richiede un prodotto medio variamente stereotipato gestibile all’interno di queste logiche economiche e pubblicitarie e di questo orizzonte? Perché la pigrizia di un pubblico fabbricato richiede questo e solo questo, perché tutti i meccanismi economici richiedono questo e solo questo, con un’idea piccola, cieca e gregaria della nostra presenza nella vita e nel mondo.

Non è così? Bene, allora veniteci a dire che tutto questo non è vero, che è solo frutto di un’allucinazione solitaria, che non esiste restaurazione nel campo dove contate o credete di contare qualcosa.


Marameo!

Qualcuno, di fronte a considerazioni simili, attacca sempre il solito ritornello: questi qui si lamentano sempre, sono vittimisti, paranoici, invidiosi, hanno la sindrome dell’accerchiamento, dicono queste cose solo perché vendono poco ecc… Mostrando così di essere perfettamente interni e omologati allo spirito del tempo e alle sue logiche. Questo non è un lamento, è una sfida. A chi non vuol vedere, sentire. A chi fa un gioco sporco, truccato, a chi tira a campare. La loro ottusità e la loro malafede sono tali che l’unica risposta che meritano è: “Marameo!” Siete talmente miopi che non avete ancora capito la piccola parte che state diligentemente svolgendo, chi sono gli accerchiatori e chi gli accerchiati. Credete di avere vinto, di avere il mondo in pugno e invece siete solo degli esecutori, dei conformisti, degli ignavi. Ma è proprio in epoche come queste che si vede di che pasta sono fatte le persone. Dirò di più. I periodi di restaurazione sono dei periodi buoni per gli scrittori e per chi non si arrende, perché le loro parole e le loro azioni e le loro vite si possono caricare di un peso specifico e di un’intensità di pensiero e visione inimmaginabili a chi sta dentro il piccolo giro della rassegnazione allo spirito del tempo e delle sue gratificazioni. In tutti i periodi di restaurazione c’è stata una fioritura di opere e di persone che, in un modo o nell’altro e ciascuna secondo la propria natura, non si sono piegate e che hanno messo al mondo qualcosa di inversamente proporzionale e di proiettivo.

Siete sicuri che non stia succedendo la stessa cosa anche adesso, sotto il vostro naso?

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