A Gamba Tesa/ Andrea Di Consoli
S’impara qualcosa da tutti. Da tutti quelli che ti parlano. Anche da chi ti fa del male. Anche da chi sta chiuso in casa, rintanato, lontano dagli uomini. S’impara qualcosa anche da chi non conosciamo (per esempio lo struggimento di volerlo conoscere, quell’uomo sconosciuto). Bisogna avere coraggio, per imparare. E anche per insegnare, bisogna avere coraggio. Viviamo un tempo in cui tutti vogliono fare gli allievi, perché fare i maestri significa disfarsi un po’ di se stessi, e quindi imparare a morire. Mi piacerebbe, un giorno, insegnare quello che ho imparato. Anzi, già insegno, a chi ne sa meno di me, le mie acquisizioni. Ho le idee chiare, su questo. Non sono un giovane scrittore. Non li temo, quelli più giovani di me. Non ho paura di invecchiare. Sono già vecchio. Mi assumo la responsabilità di indicare, a chi mi sta intorno, piccole rotte, mappe, gusti. Detesto quelli di quaranta o cinquant’anni che ancora mendicano un maestro. Di questi paurosi detesto l’individualismo mascherato di timidezza, la mancanza di generosità, la paura di rischiare, la necessità di nascondersi sotto l’ala rassicurante del potente di turno. Io imparo da tutti. Ma questo è normale. Piuttosto ho deciso d’insegnare quello che so, senza salire sulla spalla di un gigante generoso. I giganti non m’interessano. Li ascolto. Ma da pari a pari. Se qualcuno non mi sta bene, esco dalla porta e tolgo il disturbo. Non ho paura di nessuno. Non cerco padri. Ne ho già uno, di padre, e per me è il migliore della terra. Bisogna saper imparare da tutti. Ascoltare ogni discorso, con le mente ben aperta. Mi fanno ridere quelli che hanno mitizzato un maestro: di solito o ne sono rimasti schiacciati o lo hanno avversato con rancore. Io sono per la pluralità degli insegnamenti. Per la pluralità dei metodi e dei pensieri. Sono, della mia generazione, lo scrittore più vecchio di tutti. Mi sento di cento anni. Detesto la giovinezza che dura oltre i diciotto anni. Ho un sacco di difetti, lo ammetto. Ma rubrico tra i pregi la generosità di condividere con gli altri le mie cose. Di vedere gli altri superarmi in bravura e in riuscite di lavoro. Non bisogna solo imparare a imparare. Bisogna innanzitutto imparare a insegnare. In questo vorrei che la mia generazione fosse diversa. Vorrei che tramontasse definitivamente la stagione dei quaranta-cinquantenni che stanno marcendo nella prudenza, nella giovinezza protratta all’infinito, nella fiacca delle non-posizioni. In una parola: nel relativismo, che decade solo quando c’è da ottenere qualche misera commessa dal mondo dei giganti. Così, del proprio lavoro, non rimarrà nulla, neanche l’eco. Insegnare significa provare la vertigine di disfarsi di se stessi, cioè di morire. Significa indicare rotte, ben sapendo che quanto più sono precise e chiare, queste rotte, tanto più potranno essere contestate e superate. Per quanto mi riguarda, invertirei il problema: anziché almanaccarci sui buoni o i cattivi maestri, sarebbe interessante capire quanti di noi abbiano veramente il coraggio di ‘ergersi’ a maestri. Sì, con sicurezza. Con passione. Con coraggio. Rischiando qualcosa, quando si apre bocca. Senza marcire nel triste e misurato epigonismo dei giorni nostri, alibi perfetto per vivere una vita mediocre, senza infamia e senza lode.
pubblicato su Sud (numero dedicato ai maestri) e ripreso da www.nazioneindiana.com