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Un racconto di Enrico Piscitelli (da www.famlibri.it)
Di Carvelli (del 21/04/2006 @ 15:14:12, in diario, linkato 3348 volte)

Questa storia comincia così

un racconto di Enrico Piscitelli

Questa storia comincia così: ero da poco diventato redattore editoriale. Non so se sia lo stesso, per tutti, ma io ho cominciato con un test, venti pagine piene di errori (refusi) e incongruità di vario tipo (difformità). Ecco, mi hanno chiuso in uno stanzino e mi hanno detto di correggere un testo pieno di traccie, castagnie (le castagne, a dire il vero, non c’erano) e di difformità: l’1 al posto della l (sembrano, uguali, ma il bravo correttore di bozze vi dirà che ‘dipende dal font di stampa’), Repubblica Italiana scritto Repubblica italiana e poi repubblica Italiana ecc. (mi raccomando, prima di ecc. niente virgola). Poi ti danno il tuo primo librone, diciamo trecento pagine (i numeri, se possibile, non vanno scritti in cifre) e qualche foglio, diciamo trenta, di Norme tipografiche, dove sta scritto che la casa editrice XY-DELTA vuole URSS in maiuscolo o in MAIUSCOLETTO se non MAIUSCOLO laprimaminuscolotutteLEaltre. Insomma: avevo cominciato a fare il redattore editoriale (pagato un tanto a foglio e, per intenderci, con quattro fogli potevo pagarmi UN caffè) e poi frequentavo IL CORSO. Non sto qui a spiegare il dettaglio, perché voglio essere breve: basta dire che, in fondo, era una terapia di gruppo (troppo generico, MEGLIO: psicoterapia di gruppo). Sedici esseri umani che devono confrontarsi fra loro e pubblicamente, con dei docenti (pagati dall’ente Regione – è un ente, per l’appunto, e quindi la R va maiuscolo – a sua volta finanziato dall’Unione europea) che spiegano perché quando ti gratti il naso FORSE stai mentendo e quando dici sì ma fai di no con la testa SICURAMENTE stai mentendo. Dopo ti costringono a parlare dei tuoi desideri, o meglio tenti di nascondere i tuoi segreti mentre ti gratti il naso di fronte a quindici persone e un docente.
Quindi, ricapitolando, ero appena diventato redattore editoriale e frequentavo questo strano corso (IL CORSO), senza sapere perché (adesso mi prude la caviglia destra). A dire il vero (è la seconda volta che mi appello alla verità) un motivo c’era e qui arriviamo al titolo di questa storia che è: di quella volta che Enrico, che era anche redattore di grossi tomi, dichiarò il suo amore a Lei, che si chiama S. e che frequentava il di Lui corso ed era l’unica-vera-ragione per cui Lui andava in quel posto a farsi del male, titolo lungo, se vogliamo, ma anche promettente. Mancano dei dettagli che non ho voluto inserire per non appesantire la lettura, come il fatto che Enrico dichiara il suo folle amore il giorno di san (minuscolo e per esteso) Valentino, che S. è felicemente fidanzata, come del resto Enrico (Lui, a quanto pare, non felicemente). Per il finale invece, ovviamente, bisogna aspettare LA FINE.
Quindi il preambolo è: ero da poco diventato redattore editoriale e avevo anche, questa volta non da poco, rinunciato al sogno di scrivere un piacevole romanzo, la storia (autobiografica, certo) di Guasto (in corsivo perché anche titolo provvisorio) che ha quasi trent’anni e spiega AL MONDO perché non lavora, perché non studia, perché non si fa le domande che si fanno GLI ALTRI, ma pone a se stesso interrogativi estremamente articolati e intelligenti. Se c’avete provato, a scrivere un romanzo, sapete già parchè il sogno si è infranto; se invece non vi siete mai posti il problema, allora vi dico solo: PROVATECI. Bene, adesso viene il difficile, ossia passare dal sogno di scrivere, di cui sopra (cfr. supra), al giorno di san Valentino, con il protagonista, IO, che dichiara il suo perduto amor. Che poi un collegamento c’è, perché IO quel dannato giorno ha molto insistito su un concetto o meglio su una sequenza logica che comprendeva il vivere, il soffrire, l’amare e lo scrivere. Dato che Lui sa che Lei è legata a Lui solo da un sincero affetto – Lei dice ‘amicizia’ – mentre è legata a lui L’altro (il fidanzato-amante-compagno) da un robusto rapporto di carni, quando Lei, dopo che Lui le ha detto di aver lasciato lei L’altra (che poi un nome ce l’ha ed è A.) perché scopertosi innamorato (e chissà di chi...); quando lei, insomma, si rende conto che Lui le sta dicendo parole grosse e gli chiede di raffinare i Suoi concetti (ricapitolo e uniformo: Lei è S.; Lui è IO; A. è lei L’altra di IO; e lui L’altro è il lui di S.), IO le ho detto, durante la pausa per il caffè, a metà della lezione:
«sai, tu non c’entri, poteva essere un cane, una pietra, l’importante è provare quello che provo, perché solo così posso vivere, perché per vivere devo soffrire, per soffrire devo amare, e per amare devo vivere e [per amare] devo scrivere [TESTUALE]».
Ora, tralasciando e per amare devo scrivere (diamine! una cagata la possono dire tutti), la sequenza logica, per me, non fa una piega. Guasto, quello del romanzo, non fa niente perché non ama, crede di amare, ma se amasse farebbe qualcosa, ed infatti IO faccio il redattore editoriale e soffro perché ho scoperto come mai si pubblicano tanti libri. SPIEGAZIONE SINTETICA: le università considerano la pubblicazione di un saggio come benefit (per le parole straniere non ancora pienamente in uso nella lingua italiana il corsivo non è optional). Il dirigente della SALCAZ SRL ha l’auto e il telepass gratis; il cattedratico un bel libro: ogni pagina (formattata, redazionata, corretta, collazionata, stampata, distribuita) ha un prezzo; se hai fatto carriera avrai un volume tutto tuo, se invece il tuo prestigio accademico è tale e quale quello di un piffero traverso ti devi accontentare di un opera colletanea (il classico A CURA DI, cinquantasei saggi, centoventisei autori, quindici pagine a saggio). IO – Lui, Enrico – redaziona questo, studi sul mobbing nelle scuole elementari di Mazara del Vallo, o sul matrimonio degli Aborigeni, che in realtà non si sposano ma vanno a cercarsi sotto le pietre i princìpi di vita dei figli non ancora nati. Quindi è chiaro che soffre e, se soffre, ama e vive e scrive (non fa una piega, no?).
Ma torniamo alla FINE: Loro sono rientrati in aula, Lui guarda Lei nella speranza che anche Lei guardi Lui, ma non è così. Allora scrive un biglietto per darglielo e fuggire:
«[lo sto ricopiando pari pari, giuro] non è colpa mia, mi è salita sta cosa, piano/ piano/ no, non è colpa mia, non si scelgono ste cose/ non si sceglie di non mangiare, non si sceglie di non dormire/ ma credimi, è bello non mangiare ed è bello non dormire/ è bello sentirsi vivi e camminare confusi/ ogni respiro vale doppio [apice del momento poetico] e sono felice/ posso solo dirti grazie/ perché nei tuoi occhi ho ricominciato a respirare».
All’improvviso però Enrico decide di non fuggire, di fare un ultimo tentativo: tossisce, attira l’attenzione di S. e le mima VADO VIA, SEGUIMI, ORA. O meglio, crede di averle mimato quelle quattro parole (e due virgole), ma forse si è confuso e ha detto IO ESCO: FRA VENTI MINUTI, SE TI VA, RAGGIUNGIMI, e in effetti aspetta un bel po’, ma non è un problema perché Lei alla fine esce e Lui si fa accompagnare alla stazione (si fa un’ora di treno ogni giorno). Per tutto il tragitto IO penso che farei ogni dannata cosa per un bacio, dico un-solo-bacio (i due trattini congiuntivi per dare l’idea dell’unicità), mentre Lei mi racconta di come ha conosciuto il suo di lei L’altro, di come questo di lei L’altro le è stato vicino nei momenti difficili ecc. Sono le ore 19.23 del giorno di san Valentino, in un auto bianca che accellera e frena, accellera e frena, due persone fanno un vecchio gioco che si chiama: sì lo so che ti sei reso ridicolo, ma non ti preoccupare, io sono bella e non sai quante volte mi è già capitato, quindi non ti preoccupare (e sono due!) perché possiamo fare finta di niente. Ma Lui non ha nessuna intenzione di fare finta che tutto questo non sia mai accaduto e decide: PRIMO – ¬che non andrà mai più al CORSO; SECONDO – che tenterà di baciare S. prima di andare via, verso i binari uggiosi (non piove affatto, ma IO sono convinto di sì); TERZO – decide di voler essere felice, perché non c’è altro modo per esserlo se non scegliere di esserlo.
La stazione è davvero piccola, è solo un muro che divide IL binario dalla strada, il treno sta arrivando, Lui la guarda e le dice che non si vedranno mai più: esco dalla macchina e sparisco senza voltarmi.
Ed ecco IL FINALE: Lui sale sul treno e si accorge di fare una cosa che non si aspetta, sorride. IO guarda il suo riflesso confuso col paesaggio scuro (insomma: guarda fuori dal finestrino) e lo vede, Guasto, e anche lui sta sorridendo.

da www.famlibri.it