La visione della O'Connor
E' un libro molto prezioso sulla scrittura quello di Flannery O'Connor Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere curato da Ottavio Fatica e uscito già per Theoria (ora - invero è un po' - in minimum fax, stessa curatela e introduzione di Christian Raimo). Mi sono imbattuto in una frase che fa il paio con quella riflessione di lunedì sul vedere (a commento della mostra fotografica di Cartier Bresson). Scrive la O'Connor: "Con questo non voglio dire che scrivendo un racconto uno sia tenuto a trascurare o rinunciare alla sua posizione morale. Le vostre convinzioni sarannno la luce alla quale vedere, ma non potranno essere quello che vedete né sostituiranno l'atto del vedere. Per lo scrittore di narrativa, tutto trova verifica nell'occhio, organo che, alla fin fine, riassume l'intera personalità, e quanto più mondo riesca a contenere. Riassume il giudizio. Il giudizio è una cosa che ha origine nell'atto della visione, e quando non parte da quella, o ne è scisso, allora nella mente esiste una confusione che si trasferirà al racconto." E' un sos importante quello che arriva da queste righe ma direi dalla lettura del libro tutto dove predomina un senso di schiettezza che ho già conosciuto nelle prose della O'Connor. Persino il suo essere una scrittrice "cattolica" diventa qualcosa di severamente onesto mai una bandiera da sventolare o un arma (per quanto segreta) da puntare sulla vita. Tornando alla visione, allo sguardo penso che persino quando questa visione, questo sguardo, è di dentro, sono rivolti all'interno il giudizio debba soggiacere a questo sguardo e ne debba essere ispirato (ed è probabile che l'essere cattolica della O'Connor rifletta questa stessa luce, a riprova si legga l'osservazione diffusa di La saggezza nel sangue). Senza un a priori ma con un ricavo. Ma è un tema su cui tornare.
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