Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Ho completato la lettura di due libri, entrambi editi da Feltrinelli. Andrea Bajani (Mi riconosci) e Maylis de Kerangal (Nascita di un ponte). Il primo (che bella e azzeccata la copertina di Daniele Benati) è un commosso ricordo di Antonio Tabucchi. Scritto con una sensibilità che non cede mai al dolore facile, il libro vibra di una poesia commossa e molto corporea. Con talento rarefatto Bajani racconta un'amicizia che cammina sulla linea della fine, del dolore e della malattia. Forse il tema che più pressa sulla coscienza è quello dell'incontro tra le età dell'uomo, il bisogno dei buoni maestri, lo scambio tra questi due orizzonti della vita: chi dovrebbe imparare da chi. Senza didascalia e facili vettori. "Nascita di un ponte" è la bella storia senza dialoghi della edificazione di un bridge americano. Con tutto quello che gli gira intorno. Le masse che si muovono con forza da quarto stato verso l'edilizia maestosa. Una bella idea di epica del fare. In una veste così immaginifica (e immaginata) da risultare veementemente metaforica e generativa.
Ho due modi di dire le cose. Una volta parlo senza le parole. Una volta parlo con le parole. Non per forza in questo ordine. Ma poi c'è un tre che cambia tutta questa perfetta organizzazione tabellare. Ho due modi di dire le cose o forse tre. Ecco, se ci penso - se penso a tutto questo discorso mai iniziato e mai finito - se penso ai numeri - e a quanta poca dimestichezza ne ho - se penso... Se parlo. O se non parlo. Se dico i modi che ho di dire le cose neppure io lo capisco fino in fondo. E chiedo qua dentro, dentro un'eco, chi parla a chi. Chi tace a chi.
Cedono i tessuti, cede la pelle delle scarpe. Qualsiasi cosa cede a farla bollire. Tutto si slabbra alla pioggia e al sole. Dopo un po' cedono anche le idee, si allentano le determinazioni. E arriva il tramonto che cede luce in cambio di qualcosa, qualcosa di poco chiaro. Facciamo anche noi così, senza più memoria, privi di impronta, al netto degli strappi e delle scuciture.
Mi fa un po' effetto dovervi dire che quello che ci aspettiamo dal buon cinema (che spesso diciamo "d'autore" come se fosse un marchio, un IGP, un DOP con quella facilità intellettuale un po' gruppuscolare e compiaciuta) debba venire da un film programmaticamente non deputato al riconoscimento che gli stiamo per attribuire. "L'ultima ruota del carro" (titolo come di una profezia che si ribalta) di Giovanni Veronesi è un piccolo capolavoro e non solo del suo genere. Una commedia ben fatta come non accadeva da tempo di vedere. Un genere che, come si sa, è consapevole di non poter ambire a più che un po' di botteghino, non diciamo vincente ma almeno ben piazzato. E invece questa volta sbanca su un altro tavolo. Lo fa con le armi, pericolose perché a doppio filo, del cliché, della storia sin troppo comune per cercare di essere innovativa. Ma con la grazia sapiente di una bella scrittura, di una efficace recitazione, di un'ottima direzione finisce per portare a casa tutta la posta. E dire che spesso il GranPremio lo vince chi osa di più. Ma in questo caso osare qui è stato lavorare in questo esatto ingaggio del facile, del modesto (una modestia sobria e non sbandierata) che si rivela vincente ma pure sbalorditivo. E dovrebbe funzionare come una buona scuola per tutto il nostro cinema. Anche d'autore. E l'ho ridetto, ecco.
Ho visto "Sole a catinelle" con Checco Zalone e non per dire io c'ero. Nella massa dei tanti che ne hanno decretato il successo ai botteghini. E' vero, come si è detto, che Zalone non porterà al cinema nuovi lettori, come Volo non nuovi lettori in libreria. Come è accaduto in passato, la televisione trash non ha tenuto, tiene o terrà in pancia la buona informazione, né il buon intrattenimento, figuriamoci la cultura. Ma tutto questo non condanna Zalone (in verità qui alla prova un po' appiccicaticcia di una trama che non tiene, anche rispetto al più compiuto precedente di "Cado dalle nubi", ma con la potenza guaritrice della risata "buona"). Come non premia il pur bel film che ho visto il giorno dopo per una sorta di riequilibrio. "Miss Violence" di Alexander Avranas è un film con la tentazione dell'apologo morale. Poca resistenza all'apologo, nessuna alla morale. E, per completezza di quadro, appone grottesco al reale: una piccola scorrettezza autoriale, a mio modo di vedere. Nella scelta tra il "credetemi vi sto per raccontare cose incredibili" s'impantana sui toni e mal governa la matassa dolorosa finendo per depotenziarla nel rivolo del paradosso. Peccato: la pista della tragedia andava già tanto bene, perché abbandonarla per cercare adattamenti e novità che poi risultano inquinanti?
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