Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Carvelli (del 31/10/2006 @ 12:12:35, in diario, linkato 1588 volte)
Gentile ... grazie della tua mail intanto. Per quel che mi riguarda io ho pubblicato tanto su riviste per anni e poi mi è capitata l'occasione di esordire. E poi ancora di esordire. Insomma, mi sembra di aver sempre esordito ogni libro e di dover esordire ancora. Sempre. Mi sembra che un libro alla fine sia un esordio e per quanto mi è dato di vedere lo stesso vale per tutti. Quasi tutti (a meno di vendite clamorose o critica incessante). Ieri sera un cantante (?) mi raccontava: "hai venduto 1000 CD...allora ti dicono che se sei fico ne devi vendere 4mila. Ne vendi 4mila e ti dicono che se sei fico ne devi vendere 8mila e poi 20mila e poi..." Insomma si deve essere sempre più fichi: è la vita. Dicono che sia la vita. Non credo di essere un buon tramite per la scrittura altrui. Mi è già capitato sai, di credere in un libro e... E niente. Cionondimeno continuo a credere a quello che leggo e se vuoi ti leggo. E se mi piace ne parlo ma scrivendo a me miri basso. Scusa l'understatement ma sono abbastanza fico anch'io per rendermi conto di quello che sono (un non fico) e te lo dico da subito. Continua a scrivere sempre sapendo come mi ricorda sempre la mia cara D che le cose più belle stanno tutte nei cassetti e ancora non hanno visto la luce. Esordire alle volte vuol dire far vedere la luce a quel grande patrimonio ma più spesso no...però r
Di Carvelli (del 31/10/2006 @ 10:02:05, in diario, linkato 1506 volte)
"Gli è se mai che ne andrebbe della sua dignità, non mica di uomo ma di giocatore; gli è soprattutto, forse, che verrebbe a mancargli la chance sovrana e più imperiosa, la perdita". Così scrive(va) Tommaso Landolfi in Rien va, una disamina sul gioco e non solo. Anche sulla paternità, la maternità, il concetto di democrazia. Un diario sulla linea dell'esistente. Un pensiero scomodo sulla linea d'ombra del male. Questa frase del giocatore votato alla perdita per definizione (o per conferma) mi ha fatto pensare agli amatori, alle amatrici. A chi persegue la strada dell'amore con ricadute continue, non per forza con fissità ma con insistenza sì. la verifica è anche lì la perdita, l'abbandono, il tradimento. Come una pace. Un riappianamento. Una prova. Ma alla fine "Di vero non v'è se non che lo spirito giace eternamente in catene, poco importa da chi forgiate". (ancora Landolfi) A chi rompere le catene? E' come dire che se non c'è l'avvertimento dell'eterno, dell'assoluto, della vita, a rompere le catene (all'impressione di romperle) vada dato il joystick. E forse anche all'amore. E sempre e comunque (al massimo di queste due esperienze) alla perdita. L'impressione di una libertà.
Di Carvelli (del 30/10/2006 @ 19:29:57, in diario, linkato 2110 volte)
Finalmente emergono dal buio di un cassetto i versi di Daniela D'Angelo, grazie all'attenzione e alla cura di Alessio Brandolini sulla sua rivista (n.4) on line www.filidaquilone.it. Qui. Che tipo di poesia è quella di Daniela? Ne parlo a braccio e senza tecnica. Non-professionalmente, così, quindi. Quindi sposto la domanda. Come leggo i versi di Daniela? Come si accende una luce nella notte, in una di quelle notti tormentate e senza fine. Accendi una luce e vedi più chiara la sensazione che ti ha strappato al sonno. Accendi una luce fioca da comodino. Magari non a casa tua. In un albergo di passaggio. E hai chiara la sensazione di tutto quel dolore che ti aveva turbato la notte. Una luce fioca ma sufficiente a vedere con chiarezza quello che temevi potesse essere. Quella piccola tenue luce forse non ti ha dato una vera speranza ma un'esattezza sì. Un'esattezza del dolore, della sensazione scomoda o del breve piacere di un momento. Di un istante della tua vita. Un singolo istante a cui forse puoi ancorare con una soddisfazione al di là del bene e del male (di un piacere durevole) la tua vita per intero. (E forse a quel punto ti riprende sonno, anche se non hai trovato soluzioni). E allora eccola la vita, assicurata ad un posacenere o a qualsiasi altro oggetto-simbolo capace di salvare con la sua pochezza tutto l'esistente. Quello interno (i dolori appunto, il futuro, un singolo star bene che forse passa e non ritorna ecc) e quelli esterni (le cose tutte che ci circondano ed entrano in una dinamica di scontro e incontro con noi). C'è comunque e sempre un rischio, un argine che forse cederà all'acqua se acqua pioverà. Un lutto e con il lutto anche una salvezza. Ché bisogna morire almeno una volta o un poco per riessere qualcosa. Anche poco. Poco è una parola che serve molto per dire dei versi di Daniela D'Angelo. Serve perché sono versi pochi e serve perché sono versi sul poco. Un apparente poco che invece come quel lumino nel cuore della notte illumina tutto quello che serve vedere, sapere, pensare. Non si potrà dire che è una poesia di asciugatura. Non nel senso industriale almeno. Si dovrà dire che emerge solo quello che è rimasto dopo l'incessante lavoro di un sole a picco. Come se i versi avessero appreso la tecnica delle vasche e del mare, delle saline della città in cui è nata: Trapani. Metti tante parole nel largo di una mente o di una pagina e aspetti che affiori solo sale. (Niente a che vedere col pescatore, la sua tempra procacciatrice per quanto paziente). Finché non sparisce lo sterminato mondo dell'acqua non esce poesia. In proporzione dal tanto il poco. Che è però anche dire l'essenziale.
Di Carvelli (del 26/10/2006 @ 15:01:07, in diario, linkato 1550 volte)
Torino. Facce su vestiti e parole tra persone. Sono nel cuore della splendida invenzione religiosa di terramadre. Un coro di mondine, una banda, una tavola fatta a pezzi d'assaggio. Alba e nell'alba un'uscita ennesima. Silenzio dei tassinari (non Roma). Sole senza sole e caldo senza caldo. la bicicletta sul lungopo, senza fatica.
Di Carvelli (del 25/10/2006 @ 14:09:44, in diario, linkato 1909 volte)
Perdersi a Roma. Guida insolita e sentimentale Roberto Carvelli, Edizioni Interculturali, pp. 324, euro 12,00
Una guida insolita di Roma inadatta a dare coordinate, a rendere governabile l’intreccio di vicoli, strade, percorsi attraverso itinerari riconoscibili. I posti su cui ci invita a fermarci sono discariche, ospedali, cantieri, piccoli cinema, bar fuori mano, con uno sguardo laterale, con una leggerezza speciale nel passo. Una guida che ci accompagna nel dimenticare la strada. Non trovare la strada significa, in fondo, riscoprirla; la perdiamo per riaverla indietro, come quando lasciamo andare qualcuno che amiamo per poterlo poi rincorrere.
E qui, tra le pagine di questa guida fuori dal comune, Roberto Carvelli attraversa la sua biografia e i suoi ricordi, come si attraversa un quartiere, curioso e girovago, tentando di cogliere e possedere con la vista, il tatto, l’olfatto, l’udito, il gusto.
Il tentativo di possedere Roma, però, resta vano. Perché una città non la si afferra mai completamente, la si vive e basta, continuamente cambia le sue forme, e noi possiamo guardarle e viverci in mezzo. Quello che resta è lo smarrimento. In questo libro, in cui Roma non finisce mai ma si allunga nelle periferie, dove i suoi confini sono scali di ripartenze, e quello che c’è dietro l’angolo è sempre una sorpresa, una possibilità nuova, vi leggiamo la grande metafora del cambiamento e della rigenerazione. Ad ogni passo, appunto. Autore di queste passeggiate per quartieri, distratte e svagate e, nello stesso tempo, tese all’esperienza e all’osservazione, Roberto Carvelli accanto al suo sguardo ci offre anche le parole di alcuni scrittori romani o che a Roma hanno vissuto (Lodoli, Veronesi, De Luca, Anedda, Cerami, Canali, Onofri e altri), e quelle di chi le ha dedicato nel passato pagine di grande letteratura ( citazioni da Pasolini, Rosselli, Gadda, Flaiano, Bachmann, Rilke, Goethe e altri). Reportage letterario, dunque, in cui i linguaggi della prosa, dell’intervista, della poesia, della citazione letteraria si mescolano per dare vita al corpo flessibile e accogliente di una romantica non-guida dove Roma è soprattutto un sentimento.
E perdersi, un capriccio del cuore. (Daniela D'Angelo)
Di Carvelli (del 25/10/2006 @ 09:56:36, in diario, linkato 1493 volte)
Lo riceverete comodamente a casa nelle due versioni romantico e avventuroso o affidabile e calmo. Molte persone, dice, mi chiedono delle mie foto: la vogliono mettere sul comodino. Per qualcuno è la cioccolata per altri è il the e una vita sana. Abitare al mare. Comprare un sacco di riso da un chilo, più conveniente. Box o slip: questo è il dilemma. Tu ci vai al concerto?(senza pausa)io no. Cantare a bassa voce. Il toast al mattino.
Di Carvelli (del 24/10/2006 @ 14:57:35, in diario, linkato 1729 volte)
il manifesto 22 ottobre 2006 CULTURA pagina 12
La vita sfuggente di una generazione precaria
La catena di montaggio dei call-center, gli «operai-tamagotchi», la retorica sui lavoratori della conoscenza. Un incontro a Roma di giovani narratori che hanno provato a raccontare il lavoro flessibile e intermittente. E alla fine la proposta di un «laboratorio di scrittura»
Giuseppe Allegri
Génération 69 , così titola un pamphlet francese del 2005 (Editions Michalon) sui 30/40enni, vittime di «una sorta di sindrome di Peter Pan». E il '69 è l' anno dei movimenti che, dopo il maggio '68, già si incamminano verso l'autunno operaio. Ma anche l' année erotique del giovane, impacciato Gainsbourg dell'era pre-Jean Birkin, mentre sbiadite e surreali immagini rimandano le fasi dell' allunnaggio . C'era già tutto in quell'anno: un misto di disincantata, divertita e naif «società dello spettacolo», l'ultimo (ma davvero?) «conflitto di classe» del '900, insieme agli scenari fantascientifici evocati dal cospirazionismo à la Philip K. Dick o da Martin Landau, uno dei protagonisti del serial tv Spazio 1999 , o dalla saga di Star Trek . Ecco gli albori che già segnano i futuri sentieri interrotti della «generazione del labirinto» (François Sand, I trentenni , Feltrinelli, 2006, euro 7,50), ovvero la generazione precaria , dei «mille euro», low cost , liquida, ormai quasi gassosa per la sua evanescenza. Dall'estate appena trascorsa in poi un susseguirsi di pubblicazioni e inchieste, articoli di costume e gossip, noiose analisi militanti e divertenti chiacchiere da doposcuola hanno azzannato quei 25-40enni, nati dopo il '68 e prima del mundial di Spagna. Ma «generazione» è qui usata nell'accezione elaborata da Enrico Palandri nel suo struggente Pier. Tondelli e la generazione (Laterza, 2005): «il conflitto è ciò che separa, espelle. Il termine generazione lo utilizziamo per riferirci a questi cicli collettivi di rivolta e autoidentificazione nella storia». E se di conflitto e rivolta questa generazione sembra averne vissuti pochi rispetto a «quelli del '77» o a «quelli del '68», tuttavia molte donne e unomi di questa generazione hanno attraversato il post-punk elettronico e dark, l'85 delle Mafalde, l'89 del «tutte/i a Berlino», la Pantera e i centri sociali, la prima guerra nel Golfo, i primi attacchi psichici di Luther Blissett, i rave e le performance queer, ma anche le dance hall ragamuffin di Fuecu! , avendo un'ideale colonna sonora nel rapadopa di Stop al panico o nel rap infuocato dell' OndaRossaPosse . Per arrivare a Seattle, Praga, conoscere la mattanza di Napoli e la «Genova luglio 2001». Ed ora questi 25/40enni vogliono guardarsi negli occhi per parlare di questa generazione «usata e gettata», asservita all'insicurezza lavorativa, quando invece vorrebbe gioire di una intermittenza del lavoro e di una continuità di reddito. Per questo non si accontenta di ricette lavoriste e vorrebbe investire le istituzioni di altre proposte: la definizione di un nuovo welfare , fatto di reddito, servizi e garanzie sganciate dalla prestazione lavorativa, per recuperare i 30 anni che ci separano dai modelli sociali di gran parte d'Europa. E al contempo questa gallassia di precari prova a sovvertire la propria condizione di incertezza, superando l'isolamento in cui vorrebbero schiacciarla, per creare transitorie, scriverebbe un filosofo amante dei paradossi, «comunità di chi non ha comunità», basate sulla condivisione dei saperi, la libera e autonoma formazione e fruizione di cultura, innovazione tecnologica, agitazione politica. Parafrasando lo scrittore americano Donald Barthelme questi precari «continuano a muoversi, a giocare di rimessa», perché i «frammenti sono le uniche forme in cui hanno fiducia» e finiscono per ritrovarsi più nelle frammentarie narrazioni dei giovani «narratori precari(e)», che nel vuoto chiacchiericcio della poitica istituzionale o sindacale. E' questo il background che ha alimentato Incontrotempo 3 - festa delle precarie e dei precari , che si è svolto al laboratorio occupato e autogestito Acrobax. E all'interno di questo «happenig» era previsto un incontro con giovani narratrici e narratori (tra presenti e non: Aldo Nove, Mario Desiati, Alessandro Leogrande, Giorgio Falco, Francesco Dezio, Andrea Bajani, Federico Platania, Christian Raimo, Roberto Carvelli, Valerio Mattioli, Michela Murgia, Nicola Lagioia, Francesco Pacifico), invitati ad un'affollata discussione su Letteratura a progetto - Come si scrive precarietà? . Sono scrittori e scrittrici che hanno narrato storie di ordinaria precarietà e la discussione ha cercato di sbrogliare la matassa del perché e come parlare di un condizione lavorativa ed esistenziale tanto evidente quanto sfuggente. Incontro euforico che sigillato alla fine un primo impegno di lavoro in comune: creare un «laboratorio di scrittura» propedeutico però alla costruzione di un condiviso protagonismo sociale dei precari. Punto di partenza di questa composita generazione è il rifiuto dei call center - le nuove catene di montaggio delle industrie della telecomunicazione descritte con sarcasmo da Michela Murgia e Giorgio Falco -, dei contratti a termine nelle fabbriche post-fordiste dell'« operaio tamagotchi» (Francesco Dezio) e il disincanto verso la retorica della società della conoscenza che emerge dai blog dei «lavoratori immateriali». E questo, è stato più volte sottolineato durante l'incontro, accade proprio quando le politiche finanziarie creano il cuneo fiscale per i boiardi delle stesse imprese e società di telecomunicazione che creano le gabbie dei call-center . Per evitare di essere fagocitati da misere scelte individuali, l'invito a stabilire un'alleanza intergenerazionale con «sorelle e fratelli maggiori» non riconciliati e continuare a tessere una rete sociale che blocchi il ritmo infernale della «ciclotimìa» (il passaggio dal lavoro al non lavoro, da un contratto all'altro). Certo anche così facendo i precari rimangono ai margini, ma creano però un'eccedenza di relazioni sociali indispensabile alla costruzione di vie di fuga dall'«esistenza precaria». Provano cioè ad essere sabbia e non la «vaselina dei quartari», come direbbe Luciano Bianciardi. Con creativa lentezza provano quindi a mettere in comune le loro autonarrazioni , per fare il salto successivo: evocare una «cospirazione precaria» pregna di intelligenza tattica e strategica. Anche per questo vale la pena concludere evocando il brindisi della «Bologna partygiana» di inizi anni '80, narratoci a suo tempo da Pier Vittorio Tondelli: «saluto al talento della mia generazione»! Con in più l'auspicio dinamitardo protagonista del Thomas Pynchon di V : teniamoci «al corrente degli ultimi avvenimenti, sempre in cerca di qualsiasi notizia che ci faccia presagire, seppur minimamente, il caos».
Di Carvelli (del 24/10/2006 @ 08:22:36, in diario, linkato 1658 volte)
Vs Roma
Forse non solo per me, per molti di noi – romani – questo percorso di Campagna Romana è stato un viceversa, una freccia inversa, il giro contrario. Cercavamo cartelli che miravano a Roma e osservavamo il frattempo: quello che ancora non era Roma ma lo sarebbe stato. Lo sarebbe diventato: e ci chiedevamo come si sarebbe compiuta la transustanziazione. Come non-Roma diventi Roma. Quello che incontravamo era un frattempo spaziale e temporale. Due coordinate che sorprendevano per la vaghezza dei riferimenti e perché aprivano camere di decompressione diverse. Quel frattempo che ora è già un frattempo diverso: stagionale, in trasformazione antropica, in decomposizione naturale, in invecchiamento.Un frattempo in riferimento ad altri occhi che lo guardano mentre anche altri sarebbero quelli nostri che dovessero rincontrarlo. Una corriera blu con un nome che diventa un autobus arancione con un numero, da un toponimo fuori dal finestrino di un treno a una delle infinite stazioni ferroviarie che declinano Roma: ogni cosa ha un suo passaggio. Un rospo secco diventa un catalogo di mondoconvenienza (alla faccia delle fiabe). Un materasso usato al bordo di una strada diventa un materasso nuovo dietro ad una vetrina. Ma ogni felice trasformazione ha un suo prezzo. Non sono miracoli esentasse.
Ci siamo chiesti da dove iniziasse la città e il territorio che attraversavamo, quello della Cassia, ci ha costretto a dei giochi di equilibrio. Il Parco di Veio e le sue ville a ridosso dei boschi erano Roma? Ma soprattutto: in che grado la contenevano? Bastava che quel ridosso – che era in definitiva campagna – contenesse esperienze di romanità (tutti lavoravano in città, persino il santone del tempio aveva una seconda casa in città) per essere in qualche modo Roma o mancava il fatidico cartello di benvenuto? Eccoci allora a sbucare dal campestre all’abitativo. A premessa la villa di un ricco argentino con ritmi da imprenditore: niente file, niente orari definiti, agende appuntamenti variabili. Alla distanza di un pensiero da tutta questa fortuna una discarica a strapiombo. Poi il centro sportivo della Lazio, il suo servizio d’ordine a prova di Irriducibili (si chiamano così, quasi matematicamente, i sostenitori più focosi della squadra biancoceleste). Con fuori frasi a uniposca dall’affettuoso, al sensuale, al politico: un sostegno totale nella gradazione del sesso e nella univocità della prassi fascista, violenta, vendicativa e assolutista.
Il dover seguire le indicazioni verso un verso che sapevamo ci ha ricordato il nostro essere insieme indigeni e colonizzatori. Ci ha posto nella duplice condizione di chi ripensa un territorio alla luce di due funzioni quasi contrarie. A ben vedere per molti di noi (romani) si è trattato di un’uscita più che di un’entrata. O meglio un percorso che aveva le caratteristiche di entrambe. Uscivamo dal nostro essere autoctoni, ci mettevamo in un transito. Abbiamo fatto quello che altri fanno naturalmente e per bisogno: un avvicinamento. Ma era improprio e doveva per definizione essere guardingo nell’etimo dell’osservazione e della circospezione. Era una visione studiata. Il segno della lentezza è stata una marca paradossale. Andavamo per tappe ma a passo sostenuto e faticavamo per tenere testa ai ritmi che aveva dettato per noi l’andare a piedi. Persino la scrittura – per fretta – non era prevista se non per appunti. Per punti. Quindi la nostra attività è stata anch’essa una premessa. Il prima delle parole. Note su un taccuino che per il sudore e l’andatura ha perso carta nella tasca posteriore dei miei pantaloni. L’andare si è mangiato la carta e ora che riguardo questo insieme di fogli spillati vedo che in alcune pagine del mio taccuino c’è un buco. La fatica si è mangiata alcuni di quei punti, i ricordi. E questo mi suggerisce un pensiero proprio sul ritmo dell’andatura. Spesso mi sono chiesto che cosa sia l’andatura in scrittura e perché ci siano scrittori che vanno veloci e scrittori che vanno lenti. Scrittori che mirano all’essenziale, al racconto delle conclusioni e scrittori che raccontano una premessa continua. Scrittori di prolusioni e scrittori di eventi. Segnatamente mi sono richiesto se la scrittura debba attendere ad un fine e quindi ad una fine o se possa farne a meno. Come evidente il nostro campo di osservazioni come presenta possibilità presenta anche incognite e si nega alle definizioni.
Seconda considerazione sulla scrittura. Il nostro è stato un lavoro di mediazione, di risonanza. Notavamo quello che qualcuno che era così tanto con noi da essere un po’ noi – anche una parte terminale ma fondamentale del nostro sistema percettivo – notava e rimarcava. Forse ho scritto quello che altri hanno notato. O meglio forse il mio taccuino contiene sensazioni non mie. Mie lo sono per transizione. L’esperienza percettiva è stata comune e scrivere in certi casi ha avuto il segno di questo comunismo dell’esperienza. Chi tra noi amava l’allegoria e il simbolo, chi il resoconto architettonico, chi l’elemento umano come portatore di esperienza del territorio. Eravamo e siamo diversi. Eravamo e diventavamo altro nel nostro essere parte di un sistema percettivo in moto. Tutte le parole che potrebbero seguire a questo nostro piccolo viaggio sono in una certa misura l’equilibrio di queste differenze.
In un ipotetico indice delle cose notevoli – lo scrivo pensandomi/ci come viaggiatori di terre misteriose, sconosciute – forse dovrei tenere conto degli altri gangli di questo sistema di avvertimento esterno. O forse dovrei scrivere un catalogo di quello che resta con il rischio anzidetto della difformità nell’intervallo di tempo trascorso dal nostro ritorno. Preferisco ricordare un luogo e la nostra interazione. Si trattava di una vecchia cantina sociale abbandonata. Ci siamo entrati (era difficile lo scavalcamento) alla rinfusa e secondo la curiosità, le paure e i ritmi che ognuno di noi gestiva in modi diversi. Dentro c’è chi si è riposato, chi ha cercato tracce presenti, crepe nella struttura, poesia di abbandono, silenzio, oggetti da portare via. C’erano bottiglie di prima generazione (quelle della cantina) e di seconda (le tracce di un rave). Non era più una cantina sociale e lo era ancora. Era uno spazio vuoto ma anche sociale (le bottiglie seconde – in numero incalcolabile – erano tutte della stessa marca di birra e quindi rappresentavano un gruppo di consumo quasi). Forse non lo sarebbe stata più cantina né sarebbe diventata altro. O l’altro che era stata (spazio di festa) lo era stata in segreto. Era un luogo in transito tra una cosa e tutto. O nulla. Non sarebbe potuta essere altro che quello che era stata ma non potendolo più essere forse sarebbe morta in questo vuoto. Tra la campagna in cui era pienamente iscritta e l’industria che falliva, finiva in quell’abbandono. E’ in un luogo così che forse va celebrata la distanza presente tra città e non-città. Come un cimitero delle intenzioni. Forse i luoghi della transustanziazione sono così: alberi che mangiano la civiltà che aveva mangiato altro spazio di bosco. Nello stesso luogo una guerra a due versi tra civiltà e Natura.
Di Carvelli (del 23/10/2006 @ 16:48:52, in diario, linkato 1609 volte)
C'è come una speciale propensione al fare che mi muove a pensieri così attivi da non parere più pensieri. Forse dovrei definirli pensieri fattivi o pensieri attivi. Forse dovrei solo fare tutto quello che penso. Ma non è sempre facile e nemmeno sempre sicuro che serva, che sia utile, che faccia bene.
Di Carvelli (del 20/10/2006 @ 09:03:38, in diario, linkato 1734 volte)
Trovo in un'introduzione di Silvio Perrella ad un libro di poesie di Goffredo Poesie - come noto più prosatore che poeta (ma è interessante come nota il critico napoletano che la sua opera si inscriva perfettamente tra un apertura e una chiusura in versi) - le seguenti affermazioni da cui riflessioni a seguire. Scrive Perrella (che dell'opera di Parise è forse il più fine esegeta) parlando di un andare verso la poesia di Calvino e Parise: "Quando parlo d'attenzione nei confronti della poesia, non parlo di una diretta attenzione tecnica, ma piuttosto di un'analogia con i suoi processi compositivi. E soprattutto di un tentativo di eguagliarne la forza sintetica". Perrella si riferisce in modo particolare al Calvino de LE CITTA' INVISIBILI e al Parise del primi SILLABARIO. Continua: "Una via di sopravvivenza al repentino mutamento del mondo eall'altrettanto repentino mutamento della letteratura, in una pratica dello scrivere che tenesse di vista, più di quanto non si fosse fatto prima, il mondo espressivo e formale della poesia". L'idea dell'adesione non tecnica ma di affinità assonante e climatica al verso in prosa, specie nell'esemplificazione così particolare e dissimile (dissimulata) delle operse scelte mi sembra particolarmente interessante e foriera di altre attualizzazioni, considerazioni sul presente e autori del presente.
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