Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Arrivo tardi a dirvi di cosa parla “L'avversario” di Carrère – libro ripubblicato ora da Adelphi su cui, nel frattempo, sono scorsi inchiostro e pourparler! – così me ne disinteresso. Volutamente. Me la cavo precisando due dati necessari: 1 trattasi di cosiddetta autofiction; 2 ne è protagonista oltre allo scrittore testimone Jean-Claude Romand, autore di un’efferata serie di omicidi famigliari e di un non riuscito tentativo di suicidio al termine di questi nonché reo di aver per anni ingannato tutti (cari compresi) fingendo una vita che non ha mai vissuto. Fatte queste brevi premesse scrivo con un po’ di libertà e pretesto che per me il tema di questo libro è: quanto coefficiente di verità siamo capaci di omettere anche in buona fede. La sua trama è, definitivamente, quanto possiamo rimanere invischiati nella menzogna, nella finzione. Abbiamo o abbiamo amato davvero la moglie o il marito che abbiamo avuto? Lo, la abbiamo scelto, scelta? I figli che abbiamo avuto di che amore li abbiamo nutriti? E così via. Ma io volevo parlare non di questo libro ma dei libri. Della letteratura. Cosa voglio da Lei. Cosa mi aspetto da Lei. E c'entra la questione della verità e della finzione. La domanda è: quanta finzione anche la Letteratura – L maiuscola – può sostenere? Quanto scarto rispetto a quella e a che prezzo e scopo deve tollerare? E mi rendo conto che per me al di la del principio del piacere la vera letteratura deve mantenere un coefficiente misurato e sobrio in questo scarto. Detto questo, leggo e apprezzo libri che quel coefficiente allargano a forbice. A volta anche con piacere. A volte divertendomi. Punto. A capo.
"Una dolorosa lucidità è preferibile a una pace illusoria" su questo non posso che convenire con Carrère. Anche la narrativa non dovrebbe proporre ammaestramenti o inganni e comunque è meglio che dia anziché che dica. Che usi insomma le parole che creano piuttosto di quelle che illudono anche se poi certo c’è la poesia che gioca una fiche “effetti speciali” in più e per questo è sottomessa (pur con la concessione ampia della musicalità) alla regola dell’opportunità e della necessità in modo più stringente. Chiusa parentesi. In definitiva scrivere una storia dovrebbe contenere una sfida all'ordine costituito della realtà quanto della finzione che spesso pari sono nei termini della caccia alla verità per come la intendo io. Quello che forse insinua nel finale de “L’Avversario” Carrère: "un crimine o una preghiera". Un crimine o una preghiera. Trovate voi il regolo di queste parole. Verrebbe da parafrasare la sentenza degli psichiatri su Romand: "prima tutti credevano a tutto ciò che diceva, adesso nessuno crede più a niente, e lui stesso non sa cosa credere, perché non ha accesso alla propria verità, ma la ricostruisce con l'aiuto delle interpretazioni che gli offrono gli psichiatri, il giudice e i media". Il destino della letteratura è credere in se stessa e così farsi credere. La verità c'entra anche se in una forma non realistica e non per forza reale. La verità c’entra sempre. Nella letteratura come nella vita.
Quindici anni fa avevo un’altra religiosità, cantava Vasco anni fa. Più di quindici. Nel 1979 per essere precisi. Quindici anni fa nasceva invece Google. Mi ricordo poco di quindici anni fa. Poco di Google. Arrivo a tutte le cose con un piccolo scarto di anni. Mi ricordo casa di un amico smanettone, una di quelle cene che si aprono con le patatine e i puff e si chiudono con l’insalata di riso. Il vino? Corvo o Galestro. Mi ricordo solo che disse che non bisognava cercare su Google ma su AltaVista. E a me pareva naturale: erano più belle quelle montagne innevate. Le parole sembravano uscire da lì come da una fonte naturale, purissima, altissima eccetera. La casella di posta andava aperta su Hotmail ma io la aprii su Tiscali perché mi piaceva di più il colore e il font. Mi piaceva anche Virgilio ma il nome mi metteva un po’ di ansia. La posta doveva contenere un nomignolo. O, meglio, quelli che smanettavano lo avevano. Il loro nome di battaglia. Forse perché non ci si poteva chiamare Smanettone 1, Smanettone 2, Smanettone 3. Ma c’erano già quelli che avevano la posta di Mclink e ora, quando, l’incontri ti viene da trattarli come profeti. Quando ho iniziato davvero io a smanettare non era più in tempo per i nick. Avevo una posta con nome e cognome intero. In fondo non mi chiamo Massimiliano Massimiliani. Si poteva fare. Le cose sono cambiate da allora. Certe forme di religiosità si esauriscono naturalmente. Altre no. La religiosità dei capperi, la religiosità dei The Smiths, quella dello zabaione, quella delle due ruote, quella dell’autunno. Le cose pratiche seguono invece un loro corso naturale. A dispetto di una delle cose che da sempre ha per me una considerazione capitale ovvero l’estetica. Non riesco a fare una cosa che non mi piace. A mangiare una cosa buona in un piatto brutto. Altrimenti faccio cose che devo fare, mi comporto come mi devo comportare. Quasi sempre. Insomma, mi si può portare a una cena. Non faccio sfigurare a una festa. Non vi faccio vergognare a un evento glamour (ma se potete evitare di invitarmi…). Ho persino una mia forma di fedeltà nel tempo. C’è qualcosa che faccio da quasi venticinque anni e qualcun’altra da prima ancora. Ma una delle cose che faccio sempre, da sempre, anche quando entro in una stanza, in una casa, in un albergo è chiedermi se mi piace. L’altra è interrogarmi in definitiva e in ultimo se mi serve, mi è in qualche modo necessaria e solo dopo, quasi come un aut aut, se è utile se ne verranno delle cose buone per me o altri. Il resto succede nonostante me.
Ho visto The Grandmaster, il nuovo film di Wong Kar-wai e l’ho trovato sontuoso, concluso, epico. Ho pensato che è un film che può passare alla storia del cinema come C’era una volta in America (peraltro citato musicalmente alla fine). E come molti di quei film che hanno capacità di visione e di racconto nel tempo. Delle riuscite elisioni, il racconto del narratore, le sequenze che virano a foto, le didascalie spazio-temporali: tutto concorre alla congruenza della trama, al suo dipanarsi difficile tra protagonisti lontani nel tempo e nei luoghi. Senza che si vedano le righe della semplificazione, il bozzetto. Siamo in mezzo a conflitto cino-giapponese, guerra civile e via a andare. Gli amanti del regista di Shanghai si perderanno nella danza del kung fu, animata dalle prodezze della computergrafica. Qualcuno ogni tanto penserà di essere finito in un film di Ang Lee. E invece il regista di Hong Kong Express , Happy Together, In the Mood for Love o 2046 rispunta all’improvviso a dimostrare che il riuscito innesto di storia nella storia, di filosofia di vita nella filosofia dell’amore non può che arricchire la già ricca valigetta degli attrezzi di questo regista finora affascinato dagli incontri sentimentali impossibili e strazianti (quello raccontato qui si giova appunto dello sfondo ricco e delle virtù della saggezza della filosofia di vita dell'arte marziale). Anzi, ed è un giudizio personale, mi sembra che l’atmosfera melò di Wong Kar-wai non può che agevolarsi di un salto nel passato (o nel futuro), levando le ristrettezze della stanza per farci scoprire la grandezza dell’Universo non solo in un interno. Non può che godere di un incontro con la storia, la biografia (qui Ip Man, maestro di Bruce Lee). Alla fine, a pensarci bene, comunque è vero che i rimpianti salano la vita. Sempre se non diventano un alibi. Tempo: serata tiepida (spettacolo delle 20) Spettatori: circa 80/100 Biglietto: 8€
Clove
Clove è la prima parola che hai detto e faccio finta che sia anche l'ultima. Per coerenza. Hai detto clove e un gusto che non ricordo, che non capivo. Hai detto clove come un altro avrebbe detto Rosebud. Un oleogramma, un fiat lux, un abracadabra. Hai detto clove e cose che non ricordo. Che ingenua è la magia: un incrocio di lettere e sei del gatto ovvero un boccone succulento nel palato del destino, sospeso a ottomila metri dal suolo. Hai detto: è il firmamento che lo vuole. Hai detto: così in cielo come in terra. La vita dovrebbe essere classificata in rischi mortali e veniali. Il genere "incidente domestico" è decisamente meno numeroso e diffuso di quello "amoroso". La gravità delle conseguenze merita una disputa.
Ho visto To be or not to be e non poteva non piacermi. Perché è un piccolo capolavoro passato alla storia della cinematografia mondiale. E quindi non è una notizia che mi sia piaciuto. Tra l'altro tardivamente dato che è qualche mese che imperversa sulle bocche di nostalgici del buon cinema e sparuti frequentatori di sale che siamo rimasti. La notizia è che è stato restaurato. La notizia è che questa commedia degli equivoci di Lubitsch non ha perso il suo fulgore vivace. Funzionano le trovate. Funziona quella ingenuità della commedia "dolce". Straordinaria la capacità di fare ironia sulla storia. E che storia! Bravissimi gli attori. Posso aprire una parentesi? Ho sentito un sì. (Ho solo io l'impressione che anni fa mentire fosse un sentimento così preciso e definito da sembrare virtuoso anche, per dire, nella sua patina di sfumata finzione che dopo di allora mi sembra aver perso trasformato in una cosa troppo seria e poco disposta allo smargine e al gioco?). A Parigi di questi tempi imperversa il restaurato Hiroshima mon amour (arriverà anche da noi?). E trovo bella questa idea che sempre più spesso se resistono le nostre sale (anche quelle non d'essai) sappiano alternare modernità e contemporaneità. Con una sequenza da sussidiario (non mi importa di essere reputato uno stupido, tanto accade già).
Spettatori: circa 50 Biglietto: 5€ Tempo: quasi piovoso
Nel numero della settimana passata di La Lettura del Corriere della Sera c’era una interessante recensione da Chatting with Henry Matisse, conversazioni con Pierre Courthion (Paul Getty-Tate Modern Edition). C’era anche un estratto dal chatting. Un brano proprio del detto Matisse. Ne trascrivo parte così come l’ho letta, sperando vi possa fare buon sangue. “Per un pittore esordiente, la vita è difficile. Se è impegnato, si troverà totalmente assorbito dall’oggetto della sua ricerca e non sarà disposto a fare quadri che solleticano il gusto dei collezionisti. Se invece punta al successo, lavora con un’unica idea in mente: dipingere ciò che chiede il mercato e vendere. Però, così facendo, perde il sostegno della sua coscienza e finisce con il dipendere da quello che pensano e sentono gli altri. Trascura i suoi talenti e prima o poi è condannato a perderli.
Per noi il problema era semplice: non c’erano compratori. Lavoravamo per noi stessi. Facevamo un mestiere che non ci offriva speranza. E così sapevamo divertirci con molto poco. Forse anche i naufraghi su un’isola deserta trovano la situazione divertente, tutti i loro problemi sono cancellati. Non resta che ridere, raccontarsi barzellette e intrattenersi. I pittori? Come potevano pensare di vendere qualcosa? C’era un’unica possibilità, il Prix de Rome. I pittori erano anime smarrite. Oggi troviamo collezionisti pronti ad acquistare anche esordienti. Ma in quei giorni, su Quai Saint-Michel, dopo un decennio di fatiche, non sono riuscito a vendere nulla per tre anni. Eppure avevo già conosciuto qualche successo”.
Ieri sera ho visto l'Intrepido e non mi è piaciuto. Il film è lungo, svagato e decentrato anche se apparentemente concentrato su un protagonista e un tema. Il protagonista (il film è quasi una monografia, se possiamo dire così), infatti, non è credibile e pur molto pennellato da tanti tratti fatica a trovare un disegno compiuto e una prospettiva. Un protagonista in-credibile e (ne comprendiamo le ragioni) volontariamente monodimensionale non riesce ad assurgere ad eroe picaro e “semplice” di questa black comedy come, sembra, nelle intenzioni del regista. Il tema del lavoro precario non svetta, non spicca né si approfondisce rimanendo la sola intuizione di un disagio su cui (com)piangere. Forse avrebbe parlato di più attraverso un documentario e la vita vera (non compatita) di chi ci sta in mezzo senza fiaba triste. Viene sfiorato e lasciato lì l’unico tema relazionale di qualche interesse: il (non) dialogo (anche sentimentale) tra le generazioni. Il pur bravo Albanese, affiancato dalla brava antagonista si dà un gran da fare nel trasformismo del cambio d’abiti e nella perdurante naivete ma senza clamori. Tante le macchiette, qualcuna un po’ più riuscita (il truce caporale mangiafuoco). Tento di trovare una correlazione con il precedente bellissimo film di Amelio da Camus e mi convinco che per me il miglior Amelio (a parte l’eccezione del Ladro di bambini) è quello del mettitore in scena. Alle sue spalle un’ampia tradizione di film bellissimi come Porte aperte da Sciascia). Insomma questo regista è più vero e risolto quando ha una trama ben scritta, un’idea già delineata. Eppure ha un bellissimo sguardo personale, trasversale sulle città (qui la Milano in reload verso l’expo) – aiutato in questo caso dall’occhio di Bigazzi – che però separato dalla trama finisce per lasciarsi alle spalle tutto il bello che inutilmente fotografa in una patina di ipermodernismo grigio e vuoto di sentimenti.
Spettatori in sala: 11 (ultimo spettacolo) Costo del biglietto: 8€ Tempo: serata calda e cielo sereno
Di Carvelli (del 01/09/2013 @ 10:01:25, in diario, linkato 1154 volte)
A quasi dieci anni di distanza dalla sua prima edizione, è in libreria una riedizione riveduta, aggiornata e arricchita del mio libro PERDERSI A ROMA per Iacobelli editore. Posto qui la scheda editoriale del libro e l'anticipazione uscita sulla prima pagina dell'inserto cultura de Il Messaggero del 13 agosto contenente estratti dall'intervista a Vincenzo Cerami, venuto a mancare mentre eravamo in stampa, e a cui idealmente dedichiamo il libro.
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