Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Carvelli (del 10/12/2014 @ 18:26:39, in diario, linkato 1043 volte)
Il Grande Accusatore - da ora in poi IGA - fu consultato una sola volta. Parlò in modo che da molti fu definito confuso. Qualcuno lo considerò inattendibile - ma non era questa l'aggettivazione che ci si sarebbe attesi da un'autorità inquirente così fu ritenuto un commento inattendibile. Se ci pensate questa storia manifesta da subito sovrapposizioni e incongruenze. La più marcata di tutte è che IGA era nella realtà l'inquisitore anche se veniva inquisito. IGA parlava, rispondeva, ma nel farlo accusava. Era alla sbarra ma la sua voce metteva alle sbarra altri. Insomma, IGA era chi condannava per difendersi. Questo strano concorso di colpe non faceva bene a nessuno eppure si perpetuava in questa forma. Una forma funzionale al sistema di sofferenza che era allora imperante. Un sistema che, semplificando, prevede che chi deve difendersi deve necessariamente accusare. Non importa chi e perché accusi. Non conta se a ragione o a torto. Deve. IGA lo fece. Ma lo fece in una maniera incongrua. Una maniera che lasciò tutto uguale e, anzi, complicò le cose. Non fu un bel vedere. O, meglio, un bel sentire per gli inquirenti. Da qui il tanto parlare che se ne fece. Anche se mai fu detto quel che davvero doveva essere detto. Ovvero che IGA fece l'unica cosa che non doveva essere fatta. L'unica cosa che il sistema non era organizzato a tollerare. IGA si autoaccusò.
La lunga lista delle cose rimandate inizia con la parola "prete". Gli chiedo cosa significhi. Cosa abbia rimandato a quel proposito. Forse una messa da far dire? Qualcosa in relazione a una funzione di altro tipo? Magari anche un funerale. Lui dice che non ricorda. Che un giorno si è segnato "prete" e ora non sa perché. Poi si adombra e dice "da piccolo volevo fare il prete". Forse, dice, lo voglio fare ancora. Ma ha quasi settant'anni.
Di Carvelli (del 04/12/2014 @ 09:56:30, in diario, linkato 1004 volte)
Ho rimesso ordine ieri a degli appunti che avevo preso a un recente incontro pubblico con John Berger in occasione della presentazione del suo ultimo libro tradotto in italiano. "Capire una fotografia" (Contrasto).
L'incontro è iniziando da "Questione di sguardi", un testo in cui si respira il clima della fine degli anni Sessanta e della riflessione sulla condizione femminile. Parla così della presenza della donna e dell'uomo nella società di allora e in linea generale. Di esternalità e internalità. Ovvero della ricerca del potere come oggettivizzazione. La donna - spiega Berger - deve osservarsi. Ha in se, per così dire, un sorvegliato e un sorvegliante. Č esistente in sé o perché riconosciuta dall'altro?
Berger ha spiegato poi così il suo modo di lavorare: invento molto poco e ascolto le persone. La prima cosa è per me l'ascolto.
Ogni racconto ha bisogno di una nuova forma espressiva se no si perde nel passato, nel vecchio.
Vagabondo: questo è il mio modo di lavorare. La felicità è un istante mentre l'infelicita è un romanzo.
Il compromesso non serve, bisogna essere intransigenti. Quando due persone non trovano un punto di incontro è davvero ottimo: vuol dire che c'è una terza possibilità e che per trovarla dovranno usare la creatività.
La differenza tra disegno e fotografia è un enorme tema. La grande evidenza è che la fotografia ferma il tempo. Quindi si guarda un tempo sospeso. Dipingere non ferma il tempo. Il tempo sospeso appartiene al passato. Il disegno non ferma il tempo e non appena c'è qualcuno che lo guarda gli presenta un presente. Sono un modo per dire come è ora. La fotografia è come una morte. La pittura, di converso, ci ricorda di come i morti accompagnano i vivi.
La signora anziana ripete per due volte la stessa cosa. "Sono arrivata troppo presto?" domanda. "Sono arrivata troppo presto?" domanda. Poi un'altra domanda. Chiede sempre rispetto alla sua inadeguatezza. Sottolinea una sua mancanza. Ma con la certezza che il suo anticipo stia a dire della sua precisione, della sua irreprensibilità. A volte dice frasi ancora più inequivocabili della sua ricerca di assenso, conferma. "Sono io che sono arrivata troppo presto?" In questo modo sottolinea gli errori altrui. Anche alla porta della fine. Come il segreto di un successo che non vuole dire lei. Ma che vorrebbe fosse detto.
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