di Christian Raimo
Perché un libro lacerante, divinamente scritto, narrativamente vincolante come La vita dopo di Donald Antrim (Einaudi, pag. 185, euro 17) è passato quasi del tutto inosservato in Italia, tanto che io, il 15 ottobre, in una delle librerie più grandi di Roma, ne ho comprato la seconda e ultima copia dall’inizio dell’anno, dato che delle ventuno che avevano ordinato a febbraio ne avevano già riconsegnate in resa diciannove? È un problema di iperfetazione del mercato editoriale? (Se vi capiterà mai di lavorare in una casa editrice e di leggere i dati di vendita, vedrete che in genere la curva delle vendite è – può essere – ascendente nelle prime due, tre settimane, e poi crolla miseramente) È un problema di iperconsumo del libro come prodotto da spacciare giornalisticamente? (Se mai vi capiterà di lavorare in una redazione cultura di un giornale, vedrete che di un libro dovete parlarne sempre prima che il libro arrivi in libreria, e sempre più prima degli altri giornali, e le recensioni – vedrete – si concentreranno in quel grumo di giorni che sta tra la l’annuncio promozionale dell’uscita e l’uscita vera e propria, perché dal suo arrivo in libreria il prodotto-libro in un certo senso è già scaduto, già vecchio, ingiallito; e per Antrim il caso è veramente emblematico, perché, a posteriori, a parte una breve segnalazione di Tiziano Scarpa, una citazione di Franco Cordelli, e una di Gian Paolo Serino, non c’è stata una recensione di rilievo, un’analisi del testo, un confronto appassionato con il libro) È un problema di Einaudi, di una casa editrice che non sa far valere i libri che pubblica: e dopo averne acquistato i diritti probabilmente a caro prezzo, dopo averlo fatto tradurre impeccabilmente da Matteo Colombo, lascia Antrim a naufragare in libreria da solo? (Se mai vi capiterà di lavorare come ufficio stampa per una grande casa editrice, svilupperete probabilmente una sorta di raggelamento della percezione estetica accompagnato da una specie di entropia della capacità retorica: dovendo ribadire in modo convinto tutto il giorno per tutti i giorni la centralità, la crucialità del libro appena pubblicato dalla vostra casa editrice che pubblica mettiamo trecento titoli all’anno, per cui praticamente uno al giorno, l’unico modo per far conservare un minimo di criterio di verosimiglianza alle parole che pronunciate, è non crederci, togliervi dal dilemma se quello che dite ha senso o meno) È un problema di difficoltà per il pubblico italiano di aver a che fare con questi oggetti narrativi strani che sono i memoir, che negli Stati Uniti hanno invece una loro dimensione, una loro legittimità autonoma di genere, non sono sentiti come libri ibridi? (Se mai vi capiterà di fare lo scrittore, vedrete che sarete colpiti dalla potenza, dalla radicalità della scrittura di memoir come L’opera struggente di un formidabile genio di Dave Eggers, Memorie di un artista della delusione di Jonathan Lethem, Zona disagio di Jonathan Franzen, Il velo nero di Rick Moody, per citare quelli che sono chiaramente i fratelli della Vita dopo)
Oppure – e questa è l’ipotesi meno amara – La vita dopo non se l’è filato nessuno perché è un libro che fa male, è un libro sul dolore che taglia le gambe, che fa piangere, che non sa essere consolatorio, ma forse è balsamico, però soltanto alla fine della lettura, soltanto a patto di essersi lasciati ferire, per empatia, da quello che scrive l’autore sulla sua famiglia, a patto di accettare che il solo conforto che può dare la letteratura è lo stesso che ci può dare l’avvicinamento a un qualche tipo di verità.
Cito due pagine, in cui Antrim parla del rapporto con la madre e con il padre, della crescita e dei bilanci della vita.
Pag. 167: “La maggior parte delle storie di mia madre – i racconti rabbiosi che mi riferiva, prima e dopo aver smesso di bere – sulla sua vita con mio padre contenevano, trovo, un’idea di miglioramento di sé attraverso la pratica di accumulare intuizioni sugli altri: se diamo un nome alle colpe di coloro che ci hanno fatto soffrire, saremo protetti dal dolore; se riusciamo a raccogliere prove sufficienti a giustificare la nostra rabbia, supereremo la vergogna: se proviamo pena per chi ci ha tradito, allora non saremo stati traditi, maltrattati, fraintesi, o abbandonati. Ma cosa succede quando il calvario dell’abbandono è – come ritengo sia stato per mia madre, e per me insieme a lei – la vita stessa?”.
Pag. 161: “Perché non racconto a mio padre cosa faccio? Ma cos’è che faccio? Passo le notti sveglio nel letto, eccitato dalle anfetamine, lottando per respirare. Suono Day Tripper dei Beatles su una batteria immaginaria con il mio amico John Covington che finge di suonare la chitarra. Cerco di racimolare il coraggio per saltare dall’alto trampolino della Florida State University, e pedalo sulla mia bicicletta rossa. Faccio ginnastica artistica con i Tallahassee Tumbling Tots, anche se non riesco ad andare oltre la ruota. Mi piace una bambina bionda di nome Susan che fa la terza elementare con me, però poi si trasferisce. Per anni sognerò di ritrovarla. Solo nella mia stanza, costruisco modellini di navi e aeroplani, dipingendo impaziente gli scafi, le mitragliatrici e le fusoliere dopo aver costruito i modellini, perché non vedo l’ora che siano finiti. Vorrei che la mia sedia, la scrivania e per pareti della stanza fossero dipinte di arancione, ma non succederà mai. Nella casa accanto alla nostra vivono un pompiere, sua moglie e il figlio, e la band del figlio, The Other Side, prova nel loro garage, e io vado lì e mi siedo su un amplificatore. La stanza odora di cavi elettrici bruciati. Uno dopo l’altro, i fratelli che compongono la band scompaiono in Vietnam. Io sono nei lupetti. La nostra capobranco ha i capelli neri e ci permette di lanciare gavettoni dal tetto di casa sua sui passanti che transitano al di là di un’altra siepe. Ha un figlio che non vediamo mai, anche se lo sentiamo suonare il corno in una stanza al piano di sopra. Giù in giardino, noi giochiamo e facciano la lotta, sporcandoci le divise azzurre. Un giorno, gli alti papaveri degli scout licenziano la nostra capobranco, e di lì a poco mi ritrovo in un cortile di periferia senza alberi a imparare a fare il nodo scorsoio, oppure seduto al tavolo di una cucina a dipingere bastoncini di zucchero su una tazza destinata a mia madre. In fondo al cuore so che qualcosa non va. Vorrei che mio padre tornasse da noi per sempre, invece che una volta al mese. Sono uno dei «mostri senza collo» in una Gatta sul tetto che scotta allestita al teatro dell’università. Sulla porta di un bagno dietro le quinte c’è un cartello che proibisce di tirare lo sciacquone durante la rappresentazione, e ciononostante io riesco lo stesso a tirarlo, e il rumore riempie il teatro. L’anno dopo, quando interpreto il giovane Madcuff, sul giornale esce la mia foto, accanto a un trafiletto che parla dello spettacolo. Nella didascalia io sono «il piccolo Donnie Antrim». Il fotografo mi ha chiesto di gridare, ma io sono troppo timido per gridare davanti all’obiettivo, però provo comunque a simulare l’agonia della morte, e sul giornale sembro un bambino che ride come uno psicopatico con un pugnale piantato nella schiena […]”.
Che cos’è che si trova in questo libro che non c’è in altri? Secondo me questo. In un epoca altamente letteraria come la nostra, in un’epoca in cui ogni forma di emozione, di esperienza viene altamente estetizzata, persino pre-estetizzata (ossia: l’estetizzazione viene prima dell’esperienza, l’esperienza è possibile solo se è stata precedentemente estetizzata), il luogo in cui uno scrittore si mette dev’essere proprio un altro.
Non quello dunque dell’estetizzazione dell’emozione o del dolore o della verità, ma quello del resoconto di queste due contemporanee, simbotiche, fragilità: la fragilità dell’esperienza e quella della memoria. Ribadire queste fragilità (senza farne per l’eccesso opposto una forma di auto-vittimizzazione) vuol dire praticare un tipo di scrittura il cui stesso tessuto semantico non è certo, non è fondato. Vuol dire esporsi. Ed esporsi per uno scrittore non significa parlare di sé, uscire dal proprio lavoro rilasciando interviste, con la personalizzazione del suo ruolo di scrittore, con la via corta della polemica, o dell’opinionismo. Ma significa: esporre il proprio testo a un continuo, immanente senso di fallimento, di non adesione, di non cogenza con quello che viene raccontato. Dove vuole andare a parare Antrim? Cosa cerca? Come riesce – per dire – a usare uno dei “generi” più in voga della nostra iper-narrazione del dolore, la tumorologia, senza cadere nel ricatto del contenuto, senza attendere alla serialità delle aspettative di quel movimento di “c’era una vita tranquilla / accade un trauma / si ricerca il senso della vita”? Così: smettendo i panni che si tentano ogni giorno di addossare a uno scrittore: quelli del gestore del senso. O qualcuno di voi pensa che uno scrittore dovrebbe avere più profondità, più capacità di qualsiasi altra persona nel dare ordine alle cose?
da http://www.nazioneindiana.com/2007/10/21/antrim-la-vita-dopo/