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 Il letto di Reykjavìk (altro)... di Carvelli
 
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E poi, Machado, le tue poesie!/ E' un po' come quando un uomo di mezz'età/ s'innamora un'altra volta. Una cosa bella da vedere/ anche se un po' imbarazzante./ Ho fatto qualche sciocchezza, tipo metter su il tuo ritratto./ E andavo a letto con il tuo libro/ per averlo a portata di mano. Una notte un treno/ è passato nei miei sogni e mi ha svegliato./ E la prima cosa che mi è venuta in mente, con il cuore a cento,/ nella stanza buia è stata:/ va tutto bene, tanto c'è Machado./ E poi sono riuscito ad addormentarmi.

Raymond Carver
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Un (digiunatore) racconto di Kafka
Di Carvelli (del 13/03/2008 @ 10:05:43, in diario, linkato 5377 volte)

Stamattina ho letto un racconto di Kafka. Il titolo è Un digiunatore (nella mia edizione) ma scopro che l'originale tedesco è Un artista della fame. Non so il tedesco ma per chi lo sa: Ein Hungerkünstler (fatevi aiutare a pronunciarlo, farò altrettanto). Ah questa mania del "cambio di titolo"! Ho letto questo racconto dopo colazione, a stomaco pieno, ma non ho sentito i morsi della fame. Sarà perché Kafka scrive tutto dentro e quel fuori che mai manca (non è scrittore di sensazioni Kafka) è una specie di correlativo oggettivo. Ho letto e ho pensato a quella sgradevole opportunità che è la nostra vita quando viene vissuta come esplicitazione di un'abilità - vogliamo dire "inutile" in questo caso? - non riconosciuta se non nel breve di un tempo che poi svapora. Ah quanto ci sarebbe da dire! Quindi l'ho letto come un racconto sulla transitorietà delle mode? Non tanto: più come un racconto sulla facile dimenticanza dei tempi, sul declinare delle attenzioni (fin quando si diventa, un inciampo che separa dalle stalle il pubblico pronto ad osannare le belve in gabbia). A vederla con un po' di serenità: ha senso forzare la naturalezza, costringere (per quanto il digiunatore in  ultimo ci riveli una scarsa attitudine al gusto appropriato per lui del cibo) le proprie capacità allo sguardo secondo di un ammiratore (chiamasi amore, chiamasi considerazione lavorativa, approvazione censoria)? Forse no. Però. Ho pensato a Boris Pahor (che pure sta conoscendo in vita la giusta considerazione) e, ancor più anche se non lo conosco, a Carlo Coccioli di cui ultimamente sento parlare e parlo. Eppure alla fine mi trovo a pensare sempre e solo alla morte. Ma non come a una cosa un po' triste, tipo i calzini bucati, i maltagliati che si sono ammuffiti, la maniglia che non chiude più (reali correalativi oggettivi di un mio presente). Come una cosa che completa tutte quelle che capisco e vedo.

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