Ieri ho visto Into the wild. Lo sono andato a vedere come si va a vedere un film che sicuramente non ci piace. C'è una specie di conforto nel sapere che c'è qualcosa che c'indispettirà. Non per nulla è vizio praticato. Sono andato a vedere Into the wild e non mi è dispiaciuto (alle simpatiche - le più simpatiche in assoluto - valutazioni di alias il manifesto...avete presente?...aggiungerei questa scarna e odiosa ma significativa valutazione). Mi è sembrato un film troppo americano per essere gustato a pieno a tanti fusi orari di distanza e con un sistema decimale da convertire. Anche se un po' sciaquati (o esibiti) ci ho trovato i capisaldi del naturalismo di Thoreau che ho molto amato e molto amo. E questo mi è bastato per confermarmi in un'osservanza che si fa presto a perdere (in mancanza del wild). In più: mi è sembrato (forse sbaglio) che il regista non abbia ceduto alla tentazione della santificazione e abbia anzi trovato nella parabola prima vincente e poi perdente del mito selvaggio (o selvatico, lo trovo più adatto, del senso snyderiano) del suo protagonista l'equidistanza nei due casi. Il tema è e rimane quello tra i due vettori: da una parte la ubris e dall'altra parte il vedere soluzioni esterne a problemi percepiti come esterni. Penn aggiunge Dio e la luce dell'amore.
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