Tristia
Io so la scienza dei commiati, appresa
Fra lamenti notturni a chiome sciolte.
Stan ruminando i buoi, dura l’attesa:
ultim’ora di veglia delle scolte
cittadine. E mi piego al rito della notte
del gallo, quando – in spalla il carico di strazio
del viaggio – guardavamo lontano umidi occhi,
e pianger di donne al canto si univa delle muse.
Chi, alla parola “commiato”, sa quale
distacco giungerà per noi fra poco,
che cosa presagisce lo strepito del gallo
mentre la fiamma arde sull’acropoli,
e perché all’alba di una vita nuova,
mentre il bue rumina pigro nell’andito,
il gallo, araldo della vita nuova,
sulla cinta muraria le ali sbatte?
E amo il filato, amo la tessitura:
il fuso ronza, va su e giù la spola.
Guarda: scalza, leggera come fosse peluria
di cigno, Delia già incontro mi vola!
O gramo ordito del vivere nostro,
che povera è la lingua della gioia!
Tutto fu in altri tempi. Tutto sarà di nuovo.
Solo ci è dolce l’attimo del riconoscimento.
Ma così sia: giace in un terso piatto
D’argilla una traslucida figura,
come una pelle stesa di scoiattolo,
e a scrutare la cera una ragazza è curva.
Non sta a noi trarre auspici sul greco Erebo:
la cera è per le donne ciò ch’è il bronzo per l’uomo.
Noi sfidiamo la sorte da guerrieri;
destino è ch’esse traendo auspici muoiano.
1918