PIPO PIPA AAAARRR
Non ho visto Francesca con la pancia. Né al primo figlio né al secondo. Francesca è magra, ossuta, alta. Forse la pancia l’avrà portata come una maggiorazione tutto sommato contenuta. Non ha fatto come quelle donne che si gonfiano a scoppiare salvo poi rientrare nella normalità come se due o tre chili occupassero metri e metri quadri della piccola casa provvisoria di una mamma.
Francesca è nata a Roma da genitori romani. Qui ha studiato scienze politiche e ha vissuto. E qui ci siamo conosciuti. Ma da qualche anno si è trasferita a Parigi dove vive, dalle parti del Pare Lachaise, con il suo compagno e i figli che dicevo. La casa è piccola. Quaranta metri quadri da dividersi in quattro. Se si escludono il bagno, un cucinotto angusto e un ripostiglio, ad ognuno spettano poco più di sette metri quadri. In realtà quando io sono stato a trovarla ho percepito una inconsueta dimensione spaziale dalla quale sono ritornato rinfrancato riguardo ai miei trenta metri quadri stipati attorno alla solitudine e, tornando, ho preso ad agganciare alle pareti mensole e libri, pensili e armadi di stoffa facendo della casa un parallelepipedo in arrampiacata. Un andare in verticale che lotta contro la banalità didascalica della legge di gravità a predisporre una piccola astronave per viaggi interstellari che mi faccia dire che nei miei anni qui non avrò mai a lamentarmi dell’assenza di alcunché, che sopravviverò alle carestie e al dolore che ti serra in casa.
Quando sono arrivato nella piccola casa vicino a Place Gambetta – le indicazioni e la mappa che mi aveva inviato per posta elettronica erano precisissime – e ho salito le scale di legno e moquette mi sono trovato i due marmocchi davanti insolitamente festosi. Insolitamente per la scarsa dimestichezza con me – il grande, quattro anni, non poteva ricordarsi di avermi conosciuto più di tre anni prima, il piccolo, di due, non mi aveva mai visto – mi sono ritrovato a giocare prima con uno e poi con l’altro.
Come giocava il grande.
Mi passava dei grandi fogli di carta per costruire un avion, un aeroplano. Che poi piegato finiva per attraversare in lungo e in largo, si fa per dire, la piccola casa francese di Francesca. L’avion si perdeva e bisognava piegare un altro foglio che si perdeva. Il tutto in quaranta metri quadri. Dopo i due o tre primi fogli l’avion ha iniziato a chiamarsi aereo in onore del costruttore. Ho piegato dieci fogli e fatto volare quattro avion/aerei e alla fine i miei di avion/aerei erano i più richiesti degli avion/avion o avion/aeroplano del marito di Francesca che è spagnolo una lingua che per quel pezzo si carta piegato proponeva due parole-calco francese o italiano.
Come giocava il piccolo.
Prendeva un grosso libro illustrato e si sedeva vicino a me per sfogliarmelo davanti, girando con ritmo regolare i fogli e interpretando con facce e versi le figure. PIPO e PIPA erano le ambulanze, le gru, i camion dei vigili del fuoco e altri mezzi di lavoro che da quanto ho capito anteponeva in ordine alla preferenza a qualsiasi altra forma di trasporto. Un bimbo-operaio poco convinto della mollezza delle belle auto decappottabili o forse un futuro pompiere. Se compariva un mostro – una figura dall’aria minacciosa, meglio – il piccolo lanciava un AAAAARRRR digrignando i dentini mentre se il volto successivo rappresentava una figura più quieta e rassicurante scoppiava in una risata.
Bisognerebbe calcolare la diffidenza dei bambini e la loro familiarità con gli altri come se fossero coefficienti, forse aiuterebbe la conoscenza di questo mondo così misterioso che ha regole che non ricordiamo e che negli anni tendiamo a crederne privo. Superato lo choc dei risvegli del primo mattino, quelli ombrosi che precedevano la colazione ai piedi del mio letto e la preparazione per la scuola, mi sono ritrovato ad iniziare la giornata costruendo aerei e sfogliando PIPO PIPA AAAARRRR entrando in un mondo fatto di magie e di comunicazioni misteriose. In questo mondo ogni parola aveva molti significati e molti oggetti avevano tre parole. Il figlio più grande di Francesca infatti nominava gli oggetti in italiano spagnolo e francese, senza alle volte rendersi conto di chi fosse il suo interlocutore. Se il padre, spagnolo, se la mamma, italiana, se la classe del suo asilo e quindi dovesse ricorrere alla lingua della città. Io, inatteso, dovevo ancora essere registrato come parlante italiano così ero interpellato nelle tre lingue e in base alla mia faccia perplessa assecondato nella lingua comune ma non senza una specie di black-out momentaneo. Fin circa ai due anni – gli esperti suggeriscono esserci una certa normalità in questo – il piccolo dei due aveva faticato a trovare parole significanti. Circa quattro mesi dopo la mia visita so invece dalla mail allegra di Francesca essersi sciolto quel linguaggio personale fatto di PIPO PIPA AAAARRRR e che il piccolo ha iniziato a parlare. In francese. Per ora. Ma, al momento in cui scrivo, sono sicuro che la tavola sinottica delle tre lingue anche sul piccolo abbia trovato il suo felice utilizzo. Da quanto risulta molti psicologi dell’infanzia parlano in termini entusiastici del trilinguismo e crescono gli esperimenti di triplo insegnamento della lingua specie in quelle regioni a statuto speciale bilingue con una lingua minoritaria e un'altra veicolare, tipo l’inglese. Francesca, che già si era preoccupata, si era poi tranquillizzata alle rassicurazioni di un pediatra che sosteneva avrebbe all’improvviso iniziato a parlare tutte insieme. Tutte e tre. Ma nel momento della mia visita il piccolo e affettuoso bambino della mia amica si produceva in espressioni sonore e discorsi senza nessuna tramatura di senso. E’ un momento bellissimo che poi, se uno ci pensa, non torna a parte se strilli, se ti lasci portare dal piacere, se provi a dire cose in lingue che non conosci o se, appunto, tenti di parlare con i bambini con una ridicola imitazione dei loro versi che per lo più, e più spesso hanno il senso preciso di un’onomatopea, anche se oscura. Doveva essere così anche per PIPO PIPA, il suono delle sirene e dei clacson spiegati del pronto intervento. E ancora più sicuramente per quell’AAAARRRR. Il mito non è l’esperanto quindi né il latino pontificio ma i suoni che fa un corpo e gli sforzi che può fare un’ugola per trascendere le difficoltà della comunicazione. A Belfast, mi ricordo di me, ventunenne, inseguito di piano in piano in un pub su più livelli e poi in fuga per i viali della città nord-irlandese da due che mi avevano rivolto parole che non avevo capito. Erano parole minacciose? Non saprei dire. L’aria era minacciosa e avevo preso a scalare quel pub appartamento a più piani e poi a riscenderlo e fuggirmene per le strade che presto avrebbe animato una tradizionale (ero lì per quello) manifestazione dell’IRA. Quello, con altri episodi di incomprensione linguistica in giro per il mondo o in Italia, e con pochi fortunati incontri (ma qui il campo si amplia) con animali costituiscono alcune delle esperienze più importanti in questo piccolo bagaglio che mi porto appresso. Sono esempi rari e sparsi nel tempo, altre volte sono sogni ad occhi aperti fatti di paura e tensione che mi fanno immaginare in luoghi lontani da qui dove tutti ti parlano una lingua che non sai. Alle volte mi addormento pensandomi in un villaggio della Siberia o in qualche montagna dell’Iran o della Georgia ed è un brivido che mi corre lungo la schiena, lo stesso, ma più allegro, di quando un bambino mi dice dei suoni che hanno senso per lui ma non per me. Ma è in quei momenti che il brivido si fa più sottile perché mi viene da argomentare che nessuno di quei versi proveniente da quella bocca piccola può essere frutto di uno studio ma piuttosto di un ascolto diverso di cui, con uno sforzo di annullamento, potrei dotarmi anche io come riniziando un processo di cui non sono più tanto convinto.