Qualche giorno fa Daniel Mendelsohn sull'autobiografia (laRepubblica)
Di Carvelli (del 07/07/2010 @ 10:04:50, in diario, linkato 1324 volte)
laRepubblica — 03 luglio 2010 (da The New Yorker)
PARLIAMO TANTO DI ME di DANIEL MENDELSOHN (Traduzione di Emilia Benghi)
Nell' agosto 1929, Sigmund Freud rise al pensiero di fare una cosa stupida quanto scrivere un' autobiografia «È ovviamente una proposta impossibile», rispose al nipote che gli aveva fatto pervenire l' offerta di un editore americano interessato a che quel grand' uomo scrivesse la storia della sua vita. «Esteriormente», aggiunse Freud forse con un pizzico di ipocrisia «la mia vita è trascorsa tranquilla e senza episodi degni di nota e si può riassumere in poche date». (...) Freud terminava dicendo che i cinquemila dollari di anticipo offertigli corrispondevano a un centesimo della somma necessaria ad invogliarlo ad un' impresa così avventata. Indecente autoesibizionismo, sgradevole slealtà, inevitabili menzogne, un briciolo di volgare seduzione: il memoir, per gran parte della sua storia moderna, è stato la pecora nera della famiglia letteraria. Come il convitato ubriaco al banchetto di nozze esso mortifica di continuo i suoi parenti più sobri (la filosofia, la storia, la narrativa letteraria) mettendo in piazza segreti di famiglia, imbarazzando vecchi amici - spinto, si direbbe, dal bisogno irresistibile di essere al centro dell' attenzione. Persino i più esimi autori e pensatori, passando all' autobiografia, si sono sentiti accusare di esibizionismo letterario. (segue dalla copertina) UANDO, su consiglio della sorella, Virginia Woolf iniziò, con una certa riluttanza, a comporre un "abbozzo" di autobiografia, si ritrovò, all' inizio inesplicabilmente, a pensare ad un certo specchio in corridoio - scenario, come rivelò un ulteriore scavo nei suoi ricordi, di un' aggressione incestuosa da parte del fratellastro Gerald, un evento che la sua memoria aveva represso e del quale, alla fine, non riuscì a scrivere per pubblicare. Caso volle che la Woolf, che si misurò col memoir, incontrasse Freud, che non ne aveva la minima intenzione, quando entrambi erano ormai prossimi al termine della loro vita; il nipote della Woolf, Quentin Bell, narra che lo psicanalista portò in regalo alla scrittrice un narciso. Quel gesto, qualunque fosse l' intento di Freud, ben simboleggia l' inquietante connubio tra creatività e narcisismo, mai così intenso come quando l' oggetto del creare è il memoir, un genere letterario che espone la vita dell' autore priva della maschera protettiva fornita dall' invenzione. L' egocentrismo, come ci ricorda Ben Yagoda nel suo saggio prodigo di informazioni, se non terribilmente minuzioso, Memoir: A History, non è che una delle accuse mosse ai memoir e ai loro autori nell' arco dei secoli. Le altre sono quelle che alimentavano la diffidenza di Freud: indiscrezione, slealtà, e vero e proprio inganno. Ma ad irritare i critici è stato soprattutto l' apparente narcisismo. Quindici anni fa l' esimio critico William Gass tuonò contro l' intero genere in un saggio pieno di sarcasmo pubblicato su Harper' s magazine, in cui poneva la domanda retorica se esistano «delle motivazioni all' impresa che non siano affette da boria o desiderio di vendetta o volontà di giustificazione. Mettere l' aureola sul capo di un peccatore? Gonfiare un ego già dilatato oltre il limite di sicurezza?». La sfuriata giunse in un momento in cui il fiume in piena di scritti autobiografici nati alla fine degli anni Ottanta si stava trasformando, per dirla con Yagoda, in una "inondazione". (...) Ormai l' inondazione dà l' idea di uno tsunami. Siamo giunti al punto che la miglior recensione che una narrazione personale possa ricevere è - ebbene sì, di non somigliare ad un memoir. (...) Ma, come spiega Yagoda, il memoir, la scrittura confessionale, ha esercitato un fascino irresistibile sugli autori come sui lettori per moltissimo tempo, e pressoché fin dall' inizio ha ricevuto accuse di superficialità, opportunismo, mendacia, slealtà e narcisismo. C' è da chiedersi quindi semplicemente perché l' attuale inondazione di autobiografie dia in qualche modo un' impressione diversa, in un certo senso "peggiore" che mai - più narcisistica e più inquietante nelle sue implicazioni. E può ben darsi che la risposta non stia nel genere - che a dire il vero è rimasto piuttosto fedele ai suoi obiettivi e alla sua struttura da millecinquecento anni a questa parte, ma che vada individuata in un q u a l c h e c a m b i a m e n t o , profondo, intervenuto nel modo che abbiamo di pensare a noi stessi e al nostro rapporto col mondo esterno. (...) L' incapacità, apparentemente dilagante, da parte sia degli autori che dei lettori di distinguere la propria verità dalla verità oggettiva non costituisce una novità nella storia della letteratura moderna; risale direttamente a temi che stavano sfumando nel momento in cui il memoir e il romanzo emergevano nella loro forma contemporanea, all' inizio del Settecento. Yagoda cita come curiosità che Daniel Defoe, il primo grande romanziere della tradizione di lingua inglese, assegnò a molti suoi romanzi il ruolo di memoir, complicando in tal modo un rapporto che è rimasto controverso fino ad oggi. (...) Ma la verità che cerchiamo nei romanzi è diversa dalla verità che cerchiamo nei memoir. I romanzi, si può dire, rappresentano "una" verità riguardo alla vita, mentre i memoriali e le opere di non fiction rappresentano "la" verità riguardo a determinati fatti accaduti. (...) Verità è un termine che sta perdendo rapidamente valore. Prendiamo i reality televisivi: in questi programmi persone "vere", (ossia che non sono attori professionisti) sono poste in situazioni artificiali - si recano ad appuntamenti galanti frutto di elaborata organizzazione, vengono abbandonati su isole deserte, si fanno ristrutturare brutti appartamenti, o vengono gettati in mezzo ai vermi o agli scorpioni per suscitare le "vere" emozioni a cui il pubblico che sceglie quel canale vuole assistere (delusione, desiderio, gioia, gratitudine, terrore). Questa fame di emozioni in diretta, sempre più estreme, (contrapposte, ad esempio, alle emozioni accuratamente studiate che ci offrono il teatro o il cinema) deriva senza dubbio dall' ascesa, negli anni Settanta, dei talk show (...). Questi programmi televisivi contribuirono a creare e diffondere la più ampia cultura di autoanalisi e auto-esposizione senza la quale la recente abbondanza di autori e lettori di memoriali sarebbe impensabile. Cosa più importante per la storia del memoir, quei talk show hanno creato le condizioni per l' immensa popolarità di Oprah Winfrey, che ha usato il suo programma come trampolino per gente intenzionata a raccontare - o in caso di scrittori, a vendere - la storia della propria vita e che, non a caso, è stata vittima di più di una frode. (...) Ma la fame della Winfrey - e, per estensione, del suo pubblico - di belle storie a qualunque prezzo indica anche che i memoriali che narrano di traumi e salvezza, con un percorso narrativo forte e tematiche di immediata comprensione, vanno forse a riempire il vuoto creatosi a causa del graduale spostamento del romanzo dalla posizione centrale che occupava un tempo nella cultura letteraria. Può essere in effetti che programmi come il talk show della Winfrey, che pongono l' accento sulle emozioni "vere", abbiano creato un pubblico per cui le emozioni inventate sono destinate, infine, ad apparire poco più che "drammatizzazioni senza illuminazione". Se puoi guardare una donna vera che spasima per dei bei fusti in un reality show che ti importa di Emma Bovary? (....) Questa infelice confusione tra realtà e artificio collima e al contempo si alimenta di un' altra drammatica confusione: quella tra vita pubblica e vita privata. L' avvento dei telefoni cellulari ha costretto milioni di persone sedute al ristorante, intente a leggere sui treni dei pendolari, oziose nelle sale d' aspetto e mentre sono al cinema, a essere partecipi dei dettagli più intimi della vita di altre persone - la fine delle loro storie d' amore, lo stato delle loro finanze, l' avanzamento del loro percorso psicoterapeutico, le discussioni coni capi, i fidanzati o i genitori. L' esperienza di essere costantemente esposti alle vicende di altre persone è pari solo all' inesauribile desiderio delle persone di raccontare le proprie - e non solo a telefono. Internet è testimonianza cruciale di un fattore che Yagoda analizza nell' ambito dell' esplosione memorialistica nel Seicento (quando i cambiamenti nella tecnologia di stampa e nella produzione della carta resero possibile la pubblicazione su scala maggiore rispetto al passato): l' impatto che i progressi dei mezzi di comunicazione e distribuzione possono avere sull' evoluzione della narrazione personale. Il massimo flusso di narrazioni personali della storia del pianeta ha avuto luogo su Internet; non appena sono esistiti mezzi pratici ed economici per farlo, la gente ha pagato entusiasta per divulgare le proprie autobiografie, commenti, opinioni e recensioni, assumendo allegramente il doppio ruolo di autore e editore. Così se ci sentiamo aggrediti o travolti da un proliferare di narrazioni personali è perché davvero lo siamo; ma la grande profusione di queste storie di vita vissuta non si trova in libreria. Se non altro è difficile non pensare che molta dell' indignazione mirata ad autori ed editori ultimamente non sia altro che frutto del trasferimento di un' ampia ansia davvero nuova circa la nostra abilità di filtrare o controllare la pletora di narrative inaffidabili che giungono da ogni dove. Sulle strade della blogosfera non ci sono curatori editoriali, né revisori né addetti alla verifica dell' affidabilità - le persone contro cui possiamo puntare un dito accusatore quando il memoriale alla vecchia maniera ci tradisce.
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