A mio modo di vedere il racconto più bello del libro che vi ho spottato giorni fa, ovvero Visera di Varlam Salamov, si intitola Nel lager nessuno è colpevole. Datemi un'antologia scolastica che ce lo butto dentro paro paro. A voi cito questa frase iniziale, strepitosa. Premessa: il narratore spiega perché non ha mai chiesto consiglio a nessuno né ha raccolto confidenze altrui "Per amore del prossimo. Un segreto altrui è gravosissimo, insopportabile per chi sta nel lager, per il farabutto e il vigliacco che si celano in fondo a ogni uomo". E dopo: "Non sono abituato ad ascoltare gli altri e a seguire i loro consigli, non l'ho mai imparato. Per quanto buono, un consiglio è inevitabilmente pessimo per il fatto di essere un consiglio altrui".
Un mio caro amico mi ha fatto dono di un numero di Vita monastica, pubblicazione di Camaldoli. Il numero contiene nell'ottica di un "Avvicinarsi al buddhismo" un saggio del professor Craveri che ho trovato interessante. Scrive il professore: "Ma il dolore esistenziale (come sapete tutto il pensiero buddista parte dalla meditazione e dall'azione sulla sofferenza, sulle sofferenze, quelle fondamentali - nascita vecchiaia malattia morte Nota di Carvelli) non è assoluto. Questo è il messaggio di speranza. Il dolore ha una causa, ha un'origine, quindi è relativo: ha avuto un inizio, può avere una fine, può essere vinto".
Facendo un salto dal lager all'India, all'Italia, all'Ovunque mi preme pensare, mi spremo per pensare, che questo viaggio a ritroso nelle cause è un viaggio personale, con guide sì, ma senza compagni di viaggio - se non nel senso morbido della parola. Credere che qualcuno farà per noi (non con noi) è l'ennesima illusione che va dissolta. Nostro è il viaggio. Nostra la causa: speciale, unica, riservata. Non c'è spazio per l'altrui anche se l'altrui va ascoltato. Ma poi, subito, dimenticato.
La mia tartare contiene - al di là del macinato di vitella ben scelto - cipolla bianca, prezzemolo riccio, capperi (tutto tritato fine), senape, salsa worchester, tabasco, sale pepe nero, due tuorli. E' la mia tartare. Non l'altrui. So che l'altrui è diversa. Ma è la mia e mi piace così.
Una delle pagine che leggo con più piacere su Repubblica delle Donne è quella delle domande. Sull'ultima un quesito invitava a scegliere tra una mano sulla schiena e un braccia attorno al collo (ricordo bene?). Mille volte meglio una mano sulla schiena: dare e ricevere. Quanto spesso mi pento invece di aver girato un braccio sul collo di qualcuno/a. C'è un che di offensivo con una parentela ma così lontana dalle esternazioni adolescenziali da meritare una pronta cancellazione. Pentita per improprietà.
Faccio ammenda per la risposta di ieri. Non credo che la successione di amore mangiare e preghiera fosse corretta. Credo, in definitiva, che noi preghiamo per riuscire ad amare. Se amassimo - parlo di un amore davvero diffuso e non egoistico - con la naturalezza che le è propria non avremmo bisogno di pregare. la preghiera è un mezzo per provare ed (ad) espandere l'amore. Del mangiare che dirvi...