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 Un letto da Etain... di Carvelli
 
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"Ho vissuto solo così a lungo che tutto quello che mi circonda è personale, privato. Non mi meraviglierei se non ci fosse più nessuno in grado di capire quel che dico". "Io ti capirò," disse con tenerezza. "Dammi solo un po' di tempo... e capirò tutto quello che dirai." Si strinse nelle spalle. "Ho anch'io un mio modo personale di scherzare..." "Da oggi in avanti..." dissi, "uniremo di nuovo i nostri codici privati e ricostruiremo un'intimità a due". "Sarà molto carino," disse. "Ancora uno stato a due," dissi. "Sì," disse.

Kurt Vonnegut
"
 
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Pratale
Di Carvelli (del 15/08/2004 @ 08:06:07, in diario, linkato 1259 volte)

Intanto ricevo da Monica...con il suo solito perfetto tempismo queste pagine che pubblico. Anche se Pratale è...che cos'è Pratale... bisogna leggere questo libro ETAIN  ADDEY - Una gioia silenziosa - Ellin Selae... Per capire. Non è il luogo dei dialetti ma piuttosto dei linguaggi diversi e dell'assenza o della non obbligatoria presenza dei codici canonici. E comunque una inglese con uno svizzero in Umbria che fanno? Boh. Sono troppo di parte.

Tutto il tempo abbiamo parlato diio c'ero partito da casa avendo rivisto da poco SIGNS...e lì vicino ce n'era uno. Etain aveva un libro in tedesco meraviglioso. Mi ha detto: Come si potrà fare a mano uno di questi? Uno è stato fatto in mezz'ora...

Abbiamo parlato di Calvino, Pagnol, Withman, il capricorno, il pane e come si fa, il vino e come viene bene, il latte, le radici, la ricotta.

E poi vi trasmetto i saluti dima erano ragli?

e quelli di e di. Insomma sono tornato.

 

 

 

Le storie di Valbruna - Enzo Fabbrucci

         del pensare una lingua

 

Una parte importante del mio lavoro su Valbruna è quella di escogitare una lingua per raccontare
di alcuni pensiere che vivono sui confini bassi della mia mente senza dover fare, come quando
cerco di imbastirli nell'italiano di uso comune, i salti mortali.

            Voglio costruire questa, che sarà la lingua di Valbruna, a partire dal dialetto. Adesso porto
una figura. Ho visto, in certe valli alpine, dei volti di contadina che mi hanno divertito e subito dopo
inquietato. Non so se è una cosa dovuta al freddo, all'alcool o a qualcos'altro, ma erano volti come
gonfiati, e dalle guance di un rosso troppo acceso, che stonava, che non sbiadiva mai. Ecco, a qualche festa religiosa o a qualche sagra mi è capitato di vedere quelle donne vestite anche con abiti
eleganti, ma il rossore tumido del volto era talmente eccessivo che non si lasciava modulare, regnava in modo osceno, refrattario alle ore del giorno e alle solennità dell'anno.
Quelle contadine, di questo, erano coscienti? E se ne vergognavano?

 

Io sento una forte attrazione per il dialetto perché ho capito che la lingua è un mobilio, una credenza a più piani. E ai piani nobili, come nei palazzi, ci stanno per inquilini tutti i modi del
bel dire, quelli sanciti dall'Accademia. Io amo il dialetto per una questione d'ubicazione, perché
sta nelle parti più basse del mobilio della libgua, dove le zampe poggiano sul suolo.

            Mentre ai piani nobili la lingua si riproduce uguale a se stessa, illusa di avere trovato una sua perfezione, e cioè una forma d'eternità, ai piani bassi ci si sporca con la terra sulla quale si poggia, ma da lì si trae grande nutrimento. La terra, la base d'appoggio d'una lingua, sono i rumori del mondo, i versi animali e i modi volgari di chiamare le cose.

            Ecco, io sto dalla parte del dialetto perché non ha chiuso le porte alle onomatopee (parola bruttissima per dire una cosa bellissima), tutti quei rumori del vento tra le case, tutti quei versi di animali che fanno accapponare la pelle perché ci senti dentro qualcosa d'umano e primitivo a un tempo. E se la scienza arricchisce la lingua dall'alto (con tutte le parole figlie delle sue scoperte), il dialetto l'arricchisce la lingua dall'alto (con tutte le parole figlie delle sue scoperte), il dialetto l'arricchisce dal basso, e la lingua vive e si rinnova.

 

            Il mio desiderio, nell'edificare Valbruna, è di dare nome a tutte quelle cose che sembrano mute, addormentate una spanna sotto il livello della lingua, certi riti che appartengono al nostro privato, certe mosse (come smorfie) silenziose e ben fatte, certi tic goffi di cui ci vergogniamo, queste cose, mai bene considerate, sono in realtà straordinarie perché addormentano  la lingua e la rendono permeabile alle visioni. Io sento che il dialetto è all'altezza giusta, è una sonda assai sensibile a questo uso.

            Faccio posesi in dialetto perché, dicevo, voglio fondare una lingua di Valbruna, e mi piace che in questa valle appartata, dove s'incrociano la parlata romagnola, marchigiana e toscana, si possa tentare una sintesi che raccolga i suoni più evocativi

            Quando ho deciso di mettermi a inventare una lingua non ero già abbastanza smaliziato, e
volevo fare una lingua ex-novo, con tutti i suoi vocaboli e la sua grammatica, non avevo capito che
il nuovo, nella lingua, non è mai qualcosa di completamente nuovo, ma una deformazione di suoni e
figure grammaticali note. E allora inventarsi una lingua fatta di modulazione minime , piccole stratificazioni di senso e significati occultati sotto altri significati, ma senza mai cadere nel cervellotico, che è il rischio peggiore di tutti per chi ha, a monte, un progetto di invenzione.

            E poi ci metto, prima, delle storie, dei brani in italiano, per invogliare chi non sa questo strano dialetto a leggere lo stesso e anche perché ho scoperto che il dialetto ha una forma che non regge alla durata. Infatti i discorsi lunghi anche i contadini cercano di farli in italiano, e il gusto del
dialetto è tutto nelle battute brevi e nell'intercalare. Mi piace molto parlare in italiano e poi dire una battuta in dialetto, soprattutto quando mi viene a trovare qualcuno che non lo capisce; il gusto del dialetto è quel salto che fa fare alla lingua dai piani alti ai piani bassi, e in questo salto nel vuto si avverte tutta la sua straordinaria differenza.

            Ho iniziato con la figura delle contadine di montagna, per concludere porto un'altra figura.

            A volte negli orti capita di scorgere una talpa che, forse per un errore di rotta, è venuta a galla e pare che stia lì, muso all'aria, ad annusare il nuovo elemento.

            Se la si guarda bene ha nel sembiante un che di osceno e buffo a un tempo e negli occhi piccoli e spauriti un senso d'ineluttabilità così rivelata che sembra dire che lei sa che, prima o poi, arriverà l'ortolano con la zappa ad accopparla, ma che non è quello il problema. Ecco: in quell'ineluttabilità e, nonostante tutto, in quella lentezza placida, buffa, c'è tutta la magia d mondi e civiltà sommerse che, chiamate alla luce, appaiono in uno stato di grande debolezza. Quella debolezza è in realtà una forza immensa.

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