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Elogio del flop
di Hans Magnus Enzensberger [laRepubblica, 18/1/2011]
FLOP è un termine stranierorelativamente nuovo epiuttosto gradevole per la qualità onomatopeica che l’Oxford English Dictionary gli attribuisce; anche i dizionari tedeschi gli rendono adeguatamente onore traducendolo con“insuccesso” e “fiasco”. È un concetto indispensabile soprattutto nello show business, ma anche in altri campi svolge un buon servizio. Il più delle volte al cupo frastuono che un flop fanascere, segue un silenzio deciso e duraturo. Care sorelle e fratelli in arte, voi potete scrivere versi, recitare, dipingere, fare film, cantare, scolpire o comporre: ma perché parlate così malvolentieri delle vostre piccole o grandi débacle? Vi vergognate forse? Siete preoccupati di fare brutta figura? Su questo punto vorrei tranquillizzarvi. Da quello che mi avete confidato sottobanco, penso proprio di non essere l’unico ad avere alle spalle dei flop di un certo interesse, altrimenti non mi prenderei la briga di sciorinarveli davanti. Perché non fate la stessa cosa? Vi accorgereste che un esercizio del genere può essere non solo istruttivo e refrigerante, ma anche molto divertente. Difatti in ogni cosa per noi penosa è insita una buona intuizione, e mentre chi lavora nella vigna della cultura cerca di dimenticare presto i suoi successi, il ricordo di un flop dura invece per anni, se non addirittura per decine di anni, con una intensità abbagliante. I trionfi non riservano alcun insegnamento, gli insuccessi al contrario stimolano la conoscenza in svariate maniere. Ci spingono a dare un’occhiata alle esigenze del mercato, alle maniere e alle usanze delle industrie più rilevanti e aiutano lo sprovveduto a valutare le insidie e i terreni minati con cui in questo campo si trova a fare i conti. I flop hanno inoltre un effetto terapeutico: possono, se non guarire, almeno mitigare le malattie professionali che colpiscono a volte gli scrittori, come la perdita del controllo o la megalomania. Per quanto mi riguarda, confesso che a poche esperienze sono così grato come ai miei flop; affermo anzi che nel corso del tempo mi sono diventati sempre più cari. Per questo vorrei presentarvi una rassegna di progetti falliti a cui ho lavorato più o meno intensamente. Manca sino ad ora una ricerca scientifica sulle cause che portano a un flop, manca anche una classificazione utile che dovrebbe considerare l’altezza da cui si cade, le dimensioni, la visibilità e la posizione di chi osserva un flop: di queste cose non ho alcuna intenzione di occuparmi. Inoltre questa piccola raccolta non ha alcuna pretesa di essere completa: un campionario completo correrebbe infatti il pericolo di stancare il lettore già solo per la ricchezza degli argomenti. Oltretutto una serie di progetti li ho semplicemente dimenticati. I migliori flop della mia vita li offre, come è noto, il palcoscenico. Mentre un libro può contare, anche nel peggiore dei casi, su un’aspettativa di vita di settimane o di mesi, ossia fino a che il disinteresse del pubblico e della critica diventa palese e una sfilza di stroncature lo fa precipitare nell’oblio, una messinscena fallita viene trombata con una rapidità che tecnicamente ricorda una ghigliottina ben oliata; sembra persino di sentire il cupo rumore con cui questo strumento di morte esegue il suo compito. Per questo i miei flop teatrali sono per me i più indimenticabili e i più cari. Il settore che può vantare i più grandi aborti è, notoriamente, l’industria del cinema. Le sue tradizioni e le sue usanze sono, come sanno tutti coloro che ne fanno parte, davvero barbariche. Ciò dipende presumibilmente dal fatto che i film sono smisuratamente costosi. Chi ha la disgrazia di pensare in immagini in movimento, deve tener conto di una serie di ostacoli di cui un saggista o un poeta non hanno la più pallida idea, dato che i costi di produzione del loro esile volumetto sono diecimila volte più bassi di quelli di un film di Hollywood. Come nel mercato globale dell’arte, le possibilità di successo al cinema dipendono da un massiccio apporto di capitali. Il denaro è la cocaina di queste due branche. Gli autori che pensano malvolentieri alle loro piccole o grandi sconfitte, li posso comunque capire; che sugli scenari delle arti regni l’ingiustizia, non è una novità. Perfino un novellino alle prime armi intuisce che lì, da tempo immemorabile, impazzano bugie, intrighi e trucchi a non finire. Sono queste le cose che costituiscono la base affaristica dell’impresa. Unirsi al coro dei soliti lamenti rivela un animo delicato, ma non promette niente di buono per il futuro. Invece di perdere tempo con queste difficoltà, è ben più sensato tirar fuori dalla manica la prossima carta da giocare e avere un barlume di speranza. Questa è una cosa che non dovrebbe riuscire troppo difficile.