Versi per accendere la normalità
Una antologia della poetessa polacca Wyslawa Szymborska, premio Nobel nel `96, raccoglie mezzo secolo di versi curati da Pietro Marchesani per Adelphi. Rivelando la capacità di guardare con stupore fatti e presenze della quotidianità
EMANUELE TREVI
Un libro di poesia, in mille maniere, è sempre molto di più della somma delle poesie che lo contengono. È un paradosso, questo, che nel corso accidentato della modernità è diventato lo stimolo e il limite di un'avventura formale tanto interminabile quanto ricca di incognite e sorprese. Così, è difficile non trattenere un moto di iniziale delusione quando, aperto il nuovo libro di Wyslawa Szymborska leggiamo sul frontespizio un'impegnativa dichiarazione cronologica: Poesie 1945-2004. La Szymborska è uno spirito così simpatico e originale, dal profilo umano prima ancora che poetico, che questa indicazione di una lunga vita spesa a scrivere (poco) non può che indurre nei lettori già affezionati (sempre di più in Europa e anche molto giovani) un moto di istintiva simpatia. Eppure, mezzo secolo di poesie somiglia, in genere, a una corda d'arco troppo tesa e destinata a spezzarsi, non dal punto di vista della qualità intrinseca, ma da quello della nuova forma che la serie dovrebbe costituire. Di solito, un libro così si affida a un curatore, spesso più giovane, e assolve i suoi compiti di conservazione e documentazione seguendo il filo di un indice esteticamente inerte. Eppure questo Discorso all'ufficio oggetti smarriti (il titolo è quello di una poesia dei primi anni Settanta), splendidamente curato e tradotto da Pietro Marchesani (Adelphi, pp.189, euro 15,00) smentisce come meglio non potrebbe la regola. Perché è la storia di una voce, molto più che la desueta e improponibile «storia di un'anima», che questo libro ci racconta partendo dall'immediato dopoguerra, quando il piglio effusivo e il disordine dei sentimenti della giovane poetessa di Kornik fa pensare a una Marina Cvetaeva guarita per incanto dall'ossessione del sublime; fino a arrivare a poesie (alcune splendide) pubblicate su giornali e riviste polacche nei primi mesi di quest'anno. Anche una scelta molto selettiva, peraltro, non avrebbe dimensioni poi troppo diverse da quella di un'opera omnia, duecentocinquanta poesie suddivise in una decina di smilzi libretti, scritti spiando le minuzie della vita che passa, come ha spiegato la stessa Szymborska in una recente intervista a Federica Clementi. Perché non c'è evento che non possa essere «spremuto, concentrato» in una poesia: e ogni fatto contiene in sé già tutta «una carica che la poesia è pronta e in grado di accogliere» - come si legge su «Adelphiana» n.3, dello scorso maggio. Fin dai suoi primi passi, la Szymborska sembra nutrirsi di una contraddizione molto fertile, senza mai nemmeno azzardarsi a risolverla. Il suo approdo non è necessariamente ai territori dell'informe, come accade in tanta grande poesia del Novecento. Il dettato è limpido e, come se non bastasse, si adegua facilmente, senza tante discussioni, alle istituzioni del codice anche più desuete, con strofe regolari e addirittura rime («da un certo punto di vista è tutto molto semplice», confida sorniona la Szymborska a Federica Clementi, «alcune parole fra loro rimano, altre no»). Tuttavia, queste inclinazioni dello stile non sono la premessa di un ennesimo atteggiamento crepuscolare, come tutto poteva far prevedere: le famose scintille prodotte, come scrive Montale nel suo grande saggio su Gozzano, dallo sfregamento del banale e del sublime. Leggendo questa antologia ci si rende conto in modo sempre più indubbio che la voce che stiamo ascoltando assomiglia a una voce crepuscolare, ma non lo è. Quei congegni verbali trasparenti, in delicato equilibrio su se stessi, tanto da far pensare a certe filiformi sculture di Melotti, ci stanno raccontando un'altra storia, sono la traccia di un'identità sfuggente, poliedrica, contraddittoria e inclassificabile più di quanto potessimo sospettare a prima vista. Il «quotidiano» che questa voce poetica vuole rappresentare, non è, tanto per cominciare, una base solida e rassicurante, e l'identità che si esprime in versi, guarda alla normalità e nello stesso tempo sa che non potrà mai darla per scontata. Nel cuore della normalità, anzi, si accende e si fa desiderare un impossibile evocato con straziante nostalgia, raggiunto solo in pochi e fugaci momenti fuori dal tempo. Come nella splendida poesia che si intitola La memoria finalmente, proveniente da Uno spasso, raccolta del 1967. È un discorso esultante, perché finalmente si è realizzato un desiderio, quello di sognare i genitori proprio così com'erano e come finalmente è stato possibile sognarli «una notte normale,/ da un venerdì qualunque a un sabato». L'immaginazione della sognatrice questa volta ha agito sobriamente, con un gusto alla Kantor, fornendo alle larve dei genitori il minimo sufficiente, un tavolo e due sedie. E così adesso le appaiono: «in sogno, ma come liberi da sogni/ obbedienti solo a se stessi e a null'altro»: dunque belli fino a splendere della loro bellezza, commenta la poetessa con una geniale inversione di concetti, perché somiglianti.
Il nocciolo dell'ispirazione di Wislawa Szymborska ci parla dunque di una difficile passione per questa somiglianza, per questa congruenza di ciò che esiste a se stesso, di ciò che noi tendiamo a dare per scontato e invece, per la Szymborska, è un miracolo che si ripete a ogni risveglio: un dono, uno stupore che ci induce a toccare il mondo, il nostro mondo liso e intessuto di abitudini, «come una cornice intagliata».
Sono poesie, queste, che dunque non fanno che insegnarci, con la loro maniera astuta e ridente, che se amiamo questo mondo, se nonostante tutto è qui che rimaniamo attaccati, ciò accade perché, in maniera altrettanto intensa anche se meno evidente, non smettiamo mai di dubitarne. E quando evochiamo l'assurdo e l'impossibile non è perché la vita non ci basta, ma perché quasi sempre è già abbastanza assurdo e impossibile guardarsi dritti negli occhi e confessarsi, una normale sera di un normale giorno dell'anno, che l'amore è finito: come fanno gli amanti di Senza Titolo - altro capolavoro degli anni Sessanta - che desiderano l'irruzione nella loro stanza di una «cerbiatta repentina». Che, c'è da giurarlo, non arriverà a togliere quei due dall'imbarazzo. (da il manifesto di domenica 28)