Un povero bianco di Anderson
Di Carvelli (del 03/11/2011 @ 12:45:25, in diario, linkato 1451 volte)
Qualche tempo fa il culto o, meglio, l’allure di Sherwood Anderson serpeggiava tra gli appassionati in una forma catatonica. I più fortunati riuscivano ad accaparrarsi sparute copie sulle bancarelle e ne andavano fieri a dispetto dei tanti che lo cercavano senza requie. Si trattava soprattutto del più noto I racconti dell’Ohio da anni inedito. Un mio amico di ritorno da Napoli mi garantì che ne avrei trovato un esemplare alla libreria Guida proprio al fianco della pasticceria Scaturchio. Non dico che ci andai a posta ma, appena fui a Napoli, non mancai di farci un salto infruttuoso. Qualcosa ha voluto che quest’anno le cose cambiassero e quel libro ha rivisto la luce con il titolo originale di Winesburg, Ohio (Einaudi), garante il cultore Vinicio Capossela che all’epopea del libro ha persino dedicato una canzone oltre a esserne da tempi non sospetti il padrino.
Ora Nobel, collana barra casa editrice (diretta da Marco Innocenti) del Consorzio Milonga, ridà alle stampe Poor white, un testo del 1920. La traduzione è di Eugenio Ponzilli. La coincidenza vuole che mentre lo sto leggendo ne trovo fuoritempo l’antico precedente einaudiano su un tavolo di mercatino: vecchia edizione con copertina in cartoncino sbruzzoloso e un paesaggio pastello a presentarlo. Poi dici il caso! La Nobel – in una grafica dallo stile seventies – strilla in copertina la frase del “piccolo-grande” scrittore svizzero Peter Bichsel - “Il padre della letteratura americana moderna” - che compete in autorità con la sponsorizzazione più pop del cantautore italiano. Un povero bianco è un testo corale che racconta le vicende di Hugh Mc Vey, inventore partito dal nulla per realizzare il grande sogno americano, e Clara Butterworth. E sono quelle dedicate a quest’ultimo personaggio le pagine, a mio avviso, più belle del libro. I due si muovono in parallelo in mezzo alle pianure che circondano Bidwell e le sue strade tra ansie matrimoniali e inventività. Attorno a loro pullulano personaggi minori che hanno la forza di un contraltare singolo e collettivo che ne fa la riuscita narrazione del secondo piano e dello sfondo unico che contrasta e amplifica la vicenda dei protagonisti. E’ come se leggessimo insieme dei caratteri mai cameo e insieme una cornice umana generale che si salda al racconto del luogo. Personaggi-luogo e personaggi universali allo stesso tempo. Per una logica latente il povero bianco Hugh e la “chiacchierata” Clara scontano invidia e ammirazione della loro città senza potersi difendere se non essendo quello che sono: un geniale e pervicace out land hero e una fascinosa e illuminata anticonformista in tempi e territori del perbenismo un po’ vacuo. Due posizioni scomode per una cittadina non disposta alla tolleranza e all’apprezzamento della diversità se non in una forma cinicamente meravigliata e screditante.
Scrive Anderson di Clara: “Aveva la sensazione di essere più vecchia e più saggia di tutti gli uomini che conosceva. Aveva stabilito, come in definitiva fanno molte donne, che ci sono due tipi di uomini al mondo: quelli che sono dei bambini miti, buoni e ben intenzionati, e quelli che, pur rimanendo bambini, sono ossessionati da una stupida vanità maschile e pensano di essere venuti al mondo solo per essere i padroni della vita”. Clara pensa che “si dovrebbe riuscire a trovare in qualche posto un uomo che rispetti se stesso e i suoi desideri, ma che sia anche in grado di capire anche i desideri e i timori di una donna”. Che la ragazza finisca per rimanere sovente delusa è nei fatti. Come quando intermedia l’amore tutto interno e virtuale di Alfred Buckley che si dichiara per lettera e poi passa spesso a trovare il padre di lei senza esplicitare tutto il suo desiderio. Così “Clara rimaneva sola in compagnia dell’uomo che aveva dichiarato di volerla sposare ma che, ne era convinta, non desiderava nulla del genere nel suo profondo”. In conclusione il mondo di Anderson pullula di personaggi che non sono in contatto con se stessi e si muovono nella vita come mossi da un’ansia di successo vuota. Quella che li spinge al contempo alla febbre industriale e all’affanno verso un’unione sentimentale.
Lo scrittore americano non sceglie mai la via facile del parteggiare per i suoi eroi incompresi. Persino l’ammirazione di Bidwell per Hugh o il desiderio malizioso verso Clara non ci sono mai consegnati come un portato a segno unico. Tale ambiguità fa di Poor white un romanzo non semplicistico anche se la lettura è sempre premiata da uno stile coinvolgente. La ricchezza del libro è data proprio dalla capacità di osservazione ravvicinata e dal racconto dall’alto della vicenda. Ancora Un povero bianco: “All’interno dell’invisibile cerchio e sotto il grande tetto ogni persona conosceva il proprio vicino e da lui era conosciuto. Gli stranieri non si muovevano veloci e misteriosi e non c’era quel continuo e assordante rumore di macchine e nuovi progetti in azione. Sembrava che l’umanità fosse disposta a prendersi un tempo per conoscere se stessa”. Anderson si fa cantore della versione embrionale e in scala minore del sogno americano. Lo rappresenta dove è davvero piccolo e per questo più grande e vero. Lì dove la storia non l’ha ancora eternato e forse mai lo farà.
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