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 il letto di Silvia... di Carvelli
 
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Proverò a riscrivere tutta la vita non dico lo stesso libro, ma la stessa pagina, scavando come un tarlo scava una zampa di tavolino.

Luciano Bianciardi
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L'ultimo che ci faccio qui? (da paesesera)
Di Carvelli (del 22/01/2012 @ 10:16:08, in diario, linkato 800 volte)
http://www.paesesera.it/Societa/Una-cosa-toccante-che-non-faro-mai-piu-o-almeno-credo

Una cosa toccante che non farò mai più (o almeno credo)
di Roberto Carvelli

Il titolo, lo avrete riconosciuto, fa il verso al capolavoro di talentuoso umorismo di David Foster Wallace “Una cosa divertente che non farò mai più” (pubblicato da minimum fax). In inglese il titolo suonava così “A supposedly fun thing I’ll never do again”. E in quel “supposedly” (presumibilmente, apparentemente) c’è tutta l’improbabilità della premessa. Il racconto-reportage, inizialmente commissionato dalla rivista Harper’s, prendeva le onde più che le mosse da una crociera ai Caraibi ma l’estro stilistico elefantiaco del compianto David lo aveva reso un libro. In tutto e per tutto. E divertente per lo più. Una lettura che vi consiglio anche in questi giorni di triste attualità navale e vacanziera.

La cosa, più che divertente “toccante”, che ho fatto io sotto Natale è stato andare alla Basilica di San Pietro e mettermi in fila – non so se dalla foto si intuisce – da quasi la metà di un colonnato del Bernini per fare il giro completo del quarto di cerchio e arrivare a completare l’altro emiciclo per raggiungere i varchi. Lì, nonostante il freddo, ci siamo spogliati dei giacconi e li abbiamo passati al metal detector insieme allo svuota-tasche in quei giorni laborioso. Avevo infatti una quantità di spiccioli dei resti infiniti dei regali, viti da cercare in ferramenta, biglietti di appunti vari, telefono, due accendini (uno scarico).

Mi è sembrato assurdo mettermi in coda ma l’amica che accompagnavo non sarebbe venuta così presto a Roma e aveva detto, incoraggiante, “la fila scorre”. In effetti, non so quanto siamo stati ma non doveva essere troppo. La gente che stazionava con noi parlava tutte le lingue europee. C’era un gruppo di francesi un po’ caciaroni e giovani, due preti africani, una coppia lituana con tanto di bandiera sullo zaino e una famiglia allargata veneta che stigmatizzava i furbetti che gli passavano avanti evocando una fatale ora del giudizio. Tutti guardavano per sapere/capire quale fosse la finestra da cui si affacciava il Papa e gli è sembrata di riconoscerla in quella con le tende scostate. Ovviamente ho ripensato ad Habemus papam di Moretti e alla necessaria animazione di quella finestra. Attesa, scontata. Superati i varchi le cose si sono fatte facili almeno per noi che volevamo vedere la sola basilica e abbiamo guardato con un po’ di compiacimento quelli in fila per il museo. La chiesa, come molti di voi sapranno, è bella già dalla Pietà di Michelangelo subito lì a destra (anche se ormai lontana dalle turbe dei vandali). Ma per me è troppo sontuosa e barocca. Le preferisco altre più semplici come San Giorgio al Velabro, Santo Stefano Rotondo e Santa Maria Sopra Minerva (ne dico solo alcune).

Eppure San Pietro riveste un fascino universale. Un fascino, però, di cui non riesco a essere consapevole. Cioè: non mi dico mai “guarda che è come se stessi a La Mecca… ti rendi conto?” E no, non mi rendo conto. Come tanti romani, forse non ferventi, lo do un po’ per scontato questo pellegrinaggio. Poi quando sono dentro un piccolo orgoglio me lo faccio venire ma è breve. Devo subito andarlo a stipare da qualche parte per non farlo sparire in mezzo a quella aurea grandiosità. E allora cerco la tela nascosta, la cappella meno inginocchiata, la statua meno fotografata, il ritaglio di marmo sfuggito ai passi tutti in fila dei visitatori. Alla fine mi rifugio nella sagrestia. Leggo tutta la lista dei papi e conto quanto spazio è rimasto per incidere i nomi futuri; m’impressiono di quell’unico anno che marca il pontificato di Albino Luciani. La mia amica s’incuriosisce sullo stand di paramenti in attesa della (s)vestizione e dice le magiche parole italiane gucci, prada, dolce&gabbana che in inglese suonano confortevoli e compiacenti. Sorridiamo ma con compostezza anche perché ci viene richiesto di far passare prete e chierichetti al seguito che smontano da una funzione appena conclusa. In breve siamo fuori ma non so se per l’impreparazione alla visita non sento di aver subito quell’impressione toccante che poi, strano a dirsi ma zingarelli docet, viene dal francese touchant. Ecco non ho sentito la touche ma se ci fosse stata? Se uscendo da questo luogo avessi sentito il tremito, la scintilla di un qualcosa, come lo avrei comunicato? Religione e Ufo sono due cose che associo. Religioso lo sono (anche se non cattolico) e ho risolto nel dirlo solo in una comunicazione privata ma se avessi visto un Ufo come lo avrei comunicato? In questi giorni leggevo, a proposito, un articolo di Tommaso Pincio che raccontava di quando Kubrick credette di averne visto uno e di quanto si fosse tormentato prima di sciogliere scientificamente il suo dubbio e lo scrittore italiano si domanda cosa sarebbe successo se non avesse trovato quella risposta. Ecco: e se avessi subito quel tocco, che cosa potrei scrivere ora?

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