I colori della passione di Majewski
Ho visto e mi è (molto) piaciuto I colori della passione del regista e videoartista polacco Lech Majewski nato dal libro The Mill and The Cross di Francis Gibson. Il film è la ricostruzione in via filmica del quadro di Bruegel il Vecchio Salita al Calvario (1564). Un’incursione della telecamera e della messa in scena nella famosa tela con un lavoro di computergrafica sorprendente per efficacia non fine a se stessa che gioca sulla dimensionalità pittura/ripresa. La pellicola si costruisce come una serie di bozzetti preparatori – non solo visivi – della tragedia (salvifica?) della crocefissione che sembra preceduta e rimarcata da quella del giovane abbandonato al lavoro scarnificatore dei corvi dopo frustate e violenze dei soldati spagnoli inquisitori (i romani che condannarono Cristo). Il film è carico di simbolismi e gravido di silenzi e stasi che cercano di mettere in sintonia con l’Assoluto e col Mistero. Va detto: non è un film da ultimo spettacolo. Va detto: è un film per cui scegliere il partner giusto. Il film è ben recitato dal redivivo Rutger Hauer che interpreta il pittore fiammingo Pieter Bruegel e dalla Madonna Charlotte Rampling (scelta di attori al di sopra di ogni sospetto: viene da pensare). In un registro icastico, il pittore/regista (il binomio Bruegel/ Majewski) ci mostra il sacrificio doppio dell’uomo, la pena della resistenza al potere assassino, la lotta per la sopravvivenza tra la debolezza della carne, la leggerezza innocente nel dolore rappresentata dai musici e dai bambini, la pena del generatore (la madre che soffre la morte del figlio, Dio rappresentato in un mugnaio che guarda dall’alto senza poter e voler intervenire salvo agire sul vento per rimarcare la grandiosità del momento).
Il film del regista polacco – espatriato fino alla fine del comunismo e ora diviso tra USA e patria – non è un film formale pur essendo incentrato sulle forme: la ripresa e la fotografia del tipico paesaggio delle Fiandre come degli interni delle case nordeuropee del tempo, la grande cura della ricostruzione scenica, la riproposizione scrupolosa dei costumi. La parola stenta nel “fuoricampo” metafisico del pittore che prepara l’opera e la dipinge persino col pensiero a gesti che solcano l’aria come se cercassero una verità della visione fuori e dentro di sé. Una verità reale e una “altra”. Quella che si vede e quella che si crede. Ma l’atto della fede è qui notevolmente problematizzato dal sacrificio offerto senza clamore se non quello “penoso/pietoso” della madre.
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