Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Vi allego un po' di cose nuove. Prima di tutto però un grazie speciale al blogger malacarne che ha riecheggiato la vexata quaestio (ma c'era qualcosa da vexare a parte l'ostracismo potente?) di Perdersi/Mi sono perso/Maggiani (vedi puntate precedenti). Il suo blog è interessante (segnalo la sensibilissima incursione nel ciclismo). Grazie e seguono articoli (il primo è sulla critica ed è dall'Adige, il titolo originale era La critica (in)uniforme) e racconti.
Quei critici così "distratti"
di ROBERTO CARVELLI
Per anni l'unica opzione «commestibile» della critica è sembrata quella qualificata dall'aggettivo «militante». Con questa etichetta si è teso a sottolineare la sua libertà dalle scuole e le sue strenue prese di posizione: è sembrata una garanzia quale quella che denota un capo di abbigliamento resistente ai lavaggi, di una tinta vera e quindi non candidata o condannata alla scoloritura. Per anni e con sincerità molti di noi si sono convinti che questa sola potesse essere la giusta opzione ad una critica di schieramento. La questione ha animato il dibattito letterario degli ultimi mesi, scomodando molti protagonisti del mondo culturale. Converrebbe domandarsi se «militante» sia bella parola e se la metafora militare conservi buoni presagi. E se questa militanza qualificata come buona e giusta non conservi la traccia di un armamento e di una conflittualità per quanto residua. Se, ovvero, il suo essere partigiana non porti con sé una sequela di morti ingiuste. Va inoltre sottolineato che inequivocabilmente nel nostro Paese quella militanza ha avuto sì bandiere diverse ma, tutto sommato, matrici consimili. Il risiko della critica letteraria degli ultimi anni in Italia ha sì separato intelligenze ma con scarti brevi: piccoli odi, personalismi (a volte, come ricorda Onofri di Fortini e Berardinelli, anche tra maestro e allievo), ripudi seppure inconsapevoli. In realtà, sono continuati a esistere ambulanze su cui sparare, divi da osannare e libri su cui pronunciarsi tutti contemporaneamente a sfumature. Inoltre, molte delle voci procreate da quella generazione, pur senza più l'ansia di una scuola unica e compatta, hanno un medesimo e circoscritto Dna. Leggiamo e riflettiamo su due testi che stanno lì a riconsiderare questa categoria della militanza in letteratura. Filippo La Porta e Giuseppe Leonelli, «Dizionario della critica militante» (Bompiani, 11 euro), e Massimo Onofri, «La ragione in contumacia. La critica militante ai tempi del fondamentalismo» (Donzelli, 18 euro). Escono contemporaneamente come se dovessero celebrare un anniversario e propongono due approcci complementari. Il primo campiona la critica degli ultimi due decenni (anni Ottanta e anni Novanta); il secondo, lettura più complessa, riflette sul tema in versione più pensosa. Entrambi fanno cosa utile. Saggio formale e saggio personale: la distinzione che fa La Porta dovrebbe servire a distinguere, rispettivamente, i due testi anche se con ampie concessioni all'approccio confidenziale. Onofri definisce la critica nel Novecento «variante autoritaria del platonismo» nel senso di disvelatrice d'ombre e kantianamente le riserva il difficile compito di guidare «l'uscita degli uomini da uno stato di minorità a loro stessi dovuta. Laddove la minorità sta nell'incapacità di servirsi della propria ragione senza la guida di un altro. A loro stessi dovuta, questa minorità, se la causa che l'ha prodotta non è un difetto d'intelligenza, ma la mancanza della decisione e del coraggio di servirsene senza guida». E più avanti: «Il critico militante aspira, mercé la ragione, a uscire il più rapidamente possibile dallo stato di minorità: lo sappiamo. Epperò, proprio come un lettore adolescente, continua a sperare che i libri possano cambiargli la vita». Sottolinea che «la critica, quando è vera, è sempre militante e, aggiungo, antagonista». E peraltro con un'evidenza incontrovertibile ammette «che non si possa abolire il giudizio di gusto». Poi paragona il critico a Socrate, Enea, Ulisse. Ci allineiamo a queste evidenze ma nella pratica ci tocca purtroppo evidenziare spesso la promessa mancata della cosiddetta «critica militante»: la sua libertà. Quello che ci aspettiamo noi lettori comuni è che lettori professionali, sensibili, garantiscano la loro attenzione non limitandosi a parlare tutti degli stessi libri con esercizi di egotismo intellettuale e minimi scarti di lettura. Né annotare coincidenze che alle volte appaiono connivenze: quelle tra recensori-sponsor che accompagnano il libro dal file alla recensione (la pubblicazione sembra quasi un incidente secondario del percorso). Giorni fa una mia amica ufficio stampa di una piccola ma valida casa editrice di letteratura straniera provava a raggiungere inutilmente l'importante critico di un settimanale per proporre un libro sentendosi apostrofare nel peggiore dei modi. La domanda è: se un critico può permettersi di ignorare un testo senza conoscerlo vuol dire che recensirà testi che già conosce? E tutti gli altri? Non dovrebbe apparire utopia credere che le segnalazioni pubblicate sulla stampa siano davvero frutto di una scrematura e non di una testimonianza e basta. I critici letterari, dunque, sono testimonial(i)? O sono lettori professionali e sensibili come chiedevamo prima? La prima conclusione la immaginiamo aborrita (da quelli che per esempio hanno trasecolato di fronte alla nascita dei book jockey, giornalisti che si lanciano anima e corpo nella sponsorizzazione di un libro) in linea di principio ma vorremmo che lo fosse anche nella pratica che invece ha trovato spesso nei critici gli antenati del mestiere estremo della pubblicità (come definisce Fofi il fenomeno D'Orrico). La seconda rischia di apparire come definizione «in bella» della militanza da cui siamo partiti: ma con quale coefficiente di onestà? Concludiamo recensendo la nuova Garzantina «Letteratura» , soffermandoci più sulle presenze che sulle assenze. Fa piacere l'onore tributato a Atzeni, Roversi e Snyder. Liquidati troppo brevemente appaiono Michele Mari, Claudio Piersanti, Biamonti, Hrabal, Consolo e Carmelo Bene (ma d'altronde si sceglie di ignorare la nuova generazione di autori teatrali: Celestini, Emma Dante e Paravidino). Va bene a Maurensig e Benni. Non ci sono Avoledo, Mozzi, Pascale, Genna, Aldo Nove, Trevi e la Madieri. Mentre ci sono Bajani, Covacich e Piperno. A Baricco vengono riservate parole entusiaste. Ci sono Sandro Onofri (ma non si nomina il suo libro ultimo e più bello, «L'amico d'infanzia») e Pagnol (si dimenticano i due libri de «L'acqua delle colline»). C'è Dante Isella ma senza la recente data di morte che ci ha sorpreso nel frattempo. Esclusioni, inclusioni e cassazioni non sembrano nascere da militanza e gusto, non da «plausi e botte» ma da vere e proprie distrazioni. Ci viene da pensare, come un suggerimento semplice e indiretto, che spesso la critica della militanza ceda alle distrazioni, senza avere il coraggio di ammetterlo.
l'Adige 06/01/2008
Questo racconto è uscito su l'Unità-Roma il giorno 27 dicembre 2007 (credo con un titolo diverso).
Il contrario di vincere
di Roberto Carvelli
Saranno già dieci minuti che parliamo. E’ il primo incontro di boxe a cui assisto e sto spiegando a un tizio come sono andate e sarebbero dovute andare le cose. Sto addirittura mimando dei colpi al ralenti. Lui mi sta guardando tra il titubante e il perplesso prima di accennare timidamente ad una trascorsa esperienza: “sono cose che dopo dieci anni di ring...” Guardo meglio questo signore sulla cinquantina e gli scopro in faccia un naso quasi completamente appiattito sugli zigomi e storto. Praticamente poco più di un bozzo asimettrico sotto la pelle olivastra del viso. All’improvviso mi accorgo che parla con cognizione di pugni dati e presi. Mi faccio da parte dialetticamente rispetto alla sua visione dell’incontro e anche un po’ fisicamente – prima gli tenevo un braccio con la mano per chiamarlo a seguire la mia teoria del ring –, non si sa mai. Fa così la boxe: ti dà la scossa vanagloriosa di una comprensione. D’acchito. Due incontri, due riprese e credi di avere capito tutto. E invece questo tipo involontariamente camuso sta lì con la sua faccia a dirmi che prima di parlare di guantoni la faccia si deve ricordare di colpi che hai preso. Ieri o venti anni fa. Ma il pugilato fa così coi neofiti: l’illude di una scienza. E forse sarà che la controprova – il ring appunto – è lontano da te che parli ma anche da chi ti ascolta, di solito. Non è come il tennis o il calcio che una partita te la sarai pure fatta nella vita o la maratona che per qualche euro ti sarai procurato un numero da attaccarti addosso e il fiatone. Questa volta, invece, chi mi parla i pugni sa cosa sono e allora mi spengo e basta: ascolto. Attorno a noi – a me e a questo tipo dal naso schiacciato – piovono fischi e bestemmie come bombe che ci sfiorano dirette sul ring che a vederlo da vicino è angusto e tutto angoli, un quadrato da cui non si scappa. E’ appena terminato un incontro con il gladiatore beniamino di Roma ridotto dopo un round e poco più all’angolo inginocchiato. Minuti nelle dita di una mano e fine della storia. In un attimo si è cancellato il po-po-po-po-po-po-pooo-po, le grida, il suono della campana, il “fuori i secondi”, l’atmosfera di una las vegas alla romana con un biglietto da cinque euro, i fischi complici alle ragazze che alzavano il numero delle riprese tutte scosciate. In un attimo non ci sono più la loro mise natalizia rossa bordata di pelliccia bianca, gli sguardi compiaciuti, i “menaje vincenzo”, gli “arbitro daje ‘na mano” per canzonare un pugile fisso alle corde. E’ rimasta solo delusione, ora, e qualche recriminazione in forma di improperi verso l’incolpevole arbitro. Si ritarda a lasciare il palaeur – il nostro Caesar Palace – come se qualcosa potesse ancora cambiare. Il primo pensiero che viene in mente è che “solo chi cade si può rialzare” è un adagio che non si sposa bene con la boxe dove se cadi o ti rialzi traballando, gli occhi incrociati e una specie di balletto ubriaco sui piedi, è finita o finirà. Non lo stesso per il sangue che ti cola sull’occhio dal sopracciglio con cui puoi vincere lo stesso, forse accecato dalla rabbia più che dal rosso ed è appena successo in uno degli incontri che ha preceduto la sfida clou. In quelle gare in poche riprese e minutaggi ridotti c’erano i quartieri di Roma – Talenti su tutti – e i soprannomi di comitiva: Ruspa che si porta dietro un tifo a striscioni e cori da stadio che non ti aspetteresti da un ragazzino, Sioux che si fa un suo balletto indiano e conclude la vittoria con una piccola lezione di fair play e filosofia spiccia. Dopo questo round e mezzo non si scherza più. La goliardia, il transfert pugilistico come se tutti fossimo aspiranti o ex combattenti del ring, i capelli azzimati, facce d’altri tempi, bruscolini e fusaie: non è rimasto niente. La serata si chiude prematura e si sfolla con amarezza, intabarrati per gli 0 gradi di fuori. “Vincere o perdere” è l’unico dei modi di dire a roulette russa che non pare recitabile a canzonetta per il karaoke degli stonati. Riorganizzare una sfida, riprovare sembrano davvero dei consigli dispari ma anche inutili. Bisogna imparare a portare addosso con onore anche le sconfitte. La boxe è arte della perentorietà e il pubblico, quello vero, lo sa.
Su ZOE MAGAZINE è uscito questo testo che allego ma vi invito a cercare l'intera rivista (gratuita) nei luoghi che la smerciano.
La guerra, le Bananarama e i lavavetri (con una spruzzata di USA)
di Roberto Carvelli
Flashback a mo’ di antefatto. Siamo negli anni Ottanta: le Bananarama cantano Cruel summer. Nel video saltellano a tempo in salopette. Hanno l’aria sbarazzina, un po’ bad girls e un po’ depressa America, sono carine nei oro capelli biondi cotonati con quel taglio corto dietro-lungo davanti che sembrava nascere solo per nascondere il viso conturbato da quel contraddittorio ma meraviglioso decennio della nostra storia. Le tre Banana lavano macchine, poi salgono su un TIR irridendo i poliziotti. L’immaginario non è inedito: la donna benzinaio o car washer è un topos dell’eros e oltre esso. E sarà forse anche per questo che oltre al topos è diventato un ou-topos. E utopia per utopia non mi risulta che si sia mai tentato di vincerlo commercialmente con un bel franchising con ragazze che scorticano carrozzerie, almeno qui da noi (e attendo smentite). C’è un perché? Forse no ma se ci fosse le prime risposte negative sarebbero nate (almeno da noi) da un fuoco incrociato (non si dice qui se giusto o ingiusto) di moralismo catto-femminista: una di quelle guerre che fanno abbracciare una Mussolini con una Bindi insieme a una Prestigiacomo e una Finocchiaro. Già me le vedo nel salotto buono di Porta a Porta a gareggiare in cortesie e spirito di corpo. Ma la vera risposta negativa verrebbe dopo e non si farebbe attendere. E sarebbe quella dell’utente. Nell’estate in cui si discetta di lavavetri polacchi o albanesi o romeni con editti che li allontanino dai nostri semafori pena il sequestro della strumentazione (proprio così si leggeva sui nostri quotidiani estivi) fa quasi impressione ripensare all’ingenua malizia delle Bananarama. E se nel frattempo non possiamo dichiarare vinta la guerra in Iraq o Afghanistan ci dobbiamo accontentare di aver tenuto la linea maginot delle aree di servizio. A vincere è stato il contingente anarchico degli autolavaggi self service e chi officia (che io chiamerei “gli automotivati”). Si sa che l’Italia è il Paese del self made man più degli USA, specie se si tratta di lavare le macchine con quella meticolosità che conoscono solo i legittimi proprietari. Eccoci dunque nel santuario del gettone, a batterie come i polli: ognuno a seguire la pulizia per fasi della propria carrozzeria. Tra fucili che ricordano quelli delle battaglie estive da spiaggia ma con una soddisfazione più bellica e aspiratori vorticosi. Nel vuoto di assistenza mi torna alla mente un cartello letto all’Ikea che – cito a memoria – invita a mantenere pulita l’area ristorante perché (viene spiegato in una strana forma di ricatto giuslavorista) altrimenti aumenteranno i prezzi delle pietanze con l’assunzione di addetti allo sgombero dei tavoli. Ovvero: riponete i vostri vassoi o da domani la pagherete! Qui, all’autolavaggio non c’è bisogno di minacce: la minaccia è quella dei proprietari d’auto armati di fucile. La macchina è mia e me la pulisco io. Non è una semplice intimidazione, è una scala di valori: primo la mamma, poi la squadra di calcio e quindi la macchina (ma si fa presto a cambiare l’ordine di arrivo). Non sarà dunque un caso se negli editti estivi a farne le spese non sono i multiformi venditori di giornali, alberi magici, fazzoletti, ovvero tutte le diffuse professionalità da semaforo, ma proprio loro: gli audaci improvvisati pulitori di vetri. Il punto non è l’elemosina ma il senso del sacro che permane (tra i pochi spiriti religiosi del nostro nuovo tempo) nel culto dell’automobile. E guai a chi si avvicina: la guerra è guerra, qui più che in Iraq.