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 Il letto a rio grande... di Carvelli
 
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Una volta mi disse che a New York l’arte del farsi strada dipende da quanto si è bravi a esprimere il proprio malcontento in modo interessante. L’aria è satura di rabbia e lagnanze. La gente non ha pazienza di stare ad ascoltare uno che si lamenta dei propri problemi, a meno che non lo faccia in modo divertente.

Don De Lillo
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Di Carvelli (del 17/02/2010 @ 11:48:22, in diario, linkato 809 volte)

Sul numero corrente di Zoe Magazine la mia non-intervista all'indimenticato sceneggiatore felliniano e autore teatrale Tullio Pinelli.

Tullio Pinelli, intervista impossibile (o mancata)

di Roberto Carvelli

Un giorno di novembre ho preso e ho chiamato. Ho cercato di calcolare il tempo per essere certo di non disturbare. Era novembre. Tullio Pinelli, indimenticabile sceneggiatore dei grandi film di Federico Fellini, aveva compiuto 100 anni il 24 giugno del 2008, sapevo che stava bene, che rispondeva lui al telefono. Il numero lo avevo chiesto a quelli della casa editrice Edizioni Sabinae che gli avevano pubblicato per l’occasione un soggetto cinematografico, L’uomo a cavallo (15 €). Il telefono squillava a vuoto. E’ stato così per alcuni pomeriggi. Mi domandavo se forse non erano le ore giuste per l’età di questo autore di teatro, letteratura e cinema. Poi, una sera, mi ha risposto la moglie, gentile, con il suo accento francese: “Pinelli sta male, Pinelli ricoverato in una clinica”. Lo chiamava per cognome. Le ho spiegato che avrei voluto intervistarlo per un libro su l’amore a Roma. E anche dopo che Amarsi a Roma era finito ho riprovato lo stesso a chiamare per sapere come stava “Pinelli”, come se fosse un filo che dovevo ancora tirare. Anche ora che il libro è in giro nelle librerie mi domando cosa avrebbe potuto dirmi: L’amore che raccontavano ai tempi di Fellini de La dolce vita era ancora attuale? Si potrebbe raccontarlo ancora così? Qualche giorno fa ho saputo che Pinelli è venuto a mancare e ho pensato che la risposta, se la volevo, me la sarei dovuta dare da me per non lasciare una riga bianca alla mia curiosità. Con Pinelli se ne è andato un pezzo di cinema italiano, un pezzo importante. Prima di lui – per rimanere agli sceneggiatori – se n’era andato Ennio De Concini di cui ho ricordi personali: molti anni fa... 1990?... lo andai a trovare nella sua casa seminterrata a via Stoppani a Roma, di fianco al cinema Embassy per sapere di alcuni racconti che gli avevo spedito. Le sue parole le ho in mente, stampate: “Lei vuole scrivere... Deve sapere che è una vita da cenobita. Si tratta di stare in cima a una colonna e digiunare. Se la sente?”. Altre risposte da trovare da soli. Prima ancora se n’era andato Ugo Pirro, anche lui sceneggiatore da Oscar. Io, come molti della mia generazione, sono andato ai suoi corsi “democratici”. Pinelli, invece, fino ad ora, lo avevo solo intercettato negli anni ma, nell’occasione del libro, mi era sembrato utile interrogarlo direttamente. Ne L’uomo a cavallo, che citavo prima, c’è un’intervista a lui che ne ripercorre la vita: quella partigiana con tanto di pallottole (una rimasta conficcata nella spalla), l’amicizia da banco di scuola e seguito con Cesare Pavese, l’inizio della carriera legale, la passione per i girovaghi – altro segno di affinità elettiva con Fellini, il teatro. Faccio ricorso ai libri per coprire lo spazio del non detto. In un’altro recente volumetto (Federico Fellini Ciò che abbiamo inventato è tutto autentico. Lettere a Tullio Pinelli – Marsilio 9 €) si intuiscono gli scambi tra i due e c’è una nuova intervista in cui lo sceneggiatore rievoca l’amicizia con il regista riminese. Dal libro viene fuori il grande legame, nella chiave un po’ vampiresca con cui Fellini era solito intendere i rapporti più vicini. E viene anche fuori il senso del limite necessario, incarnato spesso dal Produttore, ultima forma di controllo della fantasia, ma anche dalla necessità di chiudere le storie, per farle essere. E’ in questa chiave che penso oggi che tutto quello che mi stava a cuore di chiedere a Pinelli sull’autenticità dell’amore della Dolce vita trova una risposta vera proprio in questa linea di confine tra fantasia e concretezza. Una linea che anche la nostra vita, a guardare bene, passa spesso, fino alla fine, dove si chiudono le storie, quelle scritte e quelle vissute. Ecco come riempio la mia riga bianca.

www.myvirtualpaper.com/doc/Zoe-Magazine/zoe251/2009121501/101.html

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Di Carvelli (del 17/02/2010 @ 12:34:55, in diario, linkato 712 volte)
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Di Carvelli (del 18/02/2010 @ 14:32:42, in diario, linkato 2353 volte)

LA CRISI CHE IRROMPE NEL REGNO DEGLI INDIVIDUI 
di Benedetto Vecchi
Intervista ad Alain Touraine


L'eclissi del modello neoliberale di globalizzazione produce disoccupazione e una dilagante precarietà, ma non coincide con il ritorno al capitalismo degli stati nazionali. Semmai alimenta un rinnovato individualismo che vede donne e uomini in movimento per affermare i propri diritti, uno stile di vita comunitario o una identità culturale e religiosa. Un'intervista con lo studioso francese
Le moderne società al centro della scena l'individuo. E non potrebbe essere altrimenti, perché sono plasmate e dominate da un principio di individuazione che mette in discussione il concetto stesso di società. Una tesi, questa, che lo studioso francese Alain Touraine presenta come esito di un fenomeno di lunga durata, iniziato nei gloriosi e dorati trenta anni di sviluppo economico interrotti dalla crisi petrolifera del 1973 e accelerato con la globalizzazione. L'individuo che Touraine presenta è sì consapevole dei suoi diritti e si «mette in movimento» per affermarli, ma al tempo stesso rifugge ogni nostalgia per trasformazioni messianiche della società. D'altronde, Touraine si è sempre definito un «riformista radicale» e vede, nell'agire politico, l'ambito per affermare l'autonomia e l'indipendenza dei singoli dal potere costituito. Allo stesso tempo, non offre nessuna lettura apologetica di questo «nuovo individualismo», insistendo semmai sui rischi di autoreferenzialità. Alain Touraine è in Italia su invito della facoltà di Sociologia dell'Università La Sapienza di Roma, dove ha presentato il suo ultimo libro - Pensiero altro, Armando editore -, mentre per oggi è prevista una sua Lectio Magistralis alla facoltà di Architettura di Roma (ore 10, via di Valle Giulia).

Nel suo libro «Pensiero altro» lei sostiene che la società non esiste più, mentre l'individuo è diventata la figura che meglio spiega le tendenze profonde del vivere collettivo.....
La società non esiste più come strumento analitico. L'individuo a cui faccio riferimento non è però da considerare una via d'uscita dalla difficoltà di rappresentare analiticamente la società. Parto dalla constatazione che nel capitalismo esiste la forte tendenza a individualizzare tutto, dai consumi ai rapporti di lavoro. Potremmo parlare di una società di individui ma, così facendo, si alimentano molti equivoci. È dunque necessario articolare meglio le tipologie emergenti di individuo.
C'è l'«individuo consumatore», verso il quale le imprese guardano con attenzione per meglio affinare le loro strategie di marketing. Ci sono poi uomini e donne che, in quanto individui, vogliono vivere con chi ha le stesse convinzioni religiose o identità culturali. È questa la tipologia dell'«individuo comunitario». C'è, infine, chi vuole affermare i propri diritti, ritenendoli diritti universali. Qui ci troviamo di fronte a «soggetti» illuministicamente intesi.
La compresenza di questi tre tipi di individuo può essere meglio compresa se facciamo riferimento al concetto di Anthony Giddens sulla modernità riflessiva. Lo studioso inglese ha sostenuto che le moderne società capitaliste hanno sviluppato una capacità riflessiva sulle conseguenze delle scelte prese collettivamente. Per questo, tanto la scelta che le procedure per applicarla sono fortemente condizionate da tale capacità riflessiva. Una tesi che merita di essere applicata all'individuo, perché tutte e tre le tipologie che ho illustrato manifestano tale «riflessività». Così i consumatori non sono prede inermi delle strategie di marketing, ma sviluppano una loro capacità di autonomia dal mercato. Lo stesso si può dire degli «individui comunitari», che non considerano la loro comunità elettiva una gabbia.

Sono però tipologie che possono essere attraversate dalla stessa persona. Un individuo può autorappresentarsi come consumatore, ma anche come un esponente di quel comunitarismo che fa leva sul concetto «io-noi», oppure quale soggetto portatore di diritti...
Mi sembrano invece tipologie impermeabili. Per quanto suggestiva sia la tesi di Giddens sulla modernità riflessiva, questo non cancella il rischio che sia l'individuo-consumatore che l'individuo-comunitario che il soggetto, si chiudano in loro stessi. Oltre che riflessiva, la nostra è una società simbolica. Rispetto al passato, gli individuo producono e controllano la produzione dei simboli che ritengono rilevanti nella loro vita. Possiamo dire che ognuno desidera essere riconosciuto anche come produttore di simboli. La lotta per il riconoscimento può condurre a una chiusura rispetto all'Altro, a quella impermealizzazione che io vedo operante nella realtà contemporanea.

Oltre alla morte della società, lei sottolinea l'eclissi dei movimenti sociali...
Più che eclissi, c'è la crisi del paradigma che vedeva i movimenti sociali come espressione di determinati interessi economici, di gruppo o di classe. Da molti anni io sottolineo la rilevanza dei temi culturali e dell'identità nei movimenti sociali. Ma suppongo che lei volesse chiedermi se anche questa lettura dei movimenti sociali sia entrata in crisi. Beh, credo che ci sia stato un mutamento importante. Chi partecipa ai movimenti sociali, non è solo interessato a qualificarli dal punto di vista della cultura o dell'identità che vuole riconoscimento. Ci mette anche una forte componente di affettività, di cura di sé e dell'altro, come emerge per esempio dai movimenti femministi.
In questi giorni, ho incontrato alcune uomini e donne che voi in Italia chiamate il «popolo viola». Sono rimasto colpito dal pathos, dall'insistenza sulla cura della democrazia, della costituzione politica, del legame sociale. È questa affettività la vera novità. Più che parlare di movimenti sociali, possiamo dire che ci sono uomini e donne disposti a mettersi in cammino.

Questa idea di mettersi in cammino, in viaggio, è molto zapatista, un movimento che lei ha studiato...
Gli zapatisti hanno operato una rottura con le vecchie concezioni della guerriglia latinoamericane. Hanno preferito l'espressione «camminare, domandando». In questo, prefiguravano che non c'era una realtà sociale organizzata e predefinita, ma uomini e donne disposti a mettersi, come dice lei, in movimento. In forme diverse, accade anche da noi che ci si metta in cammino per affermare diritti, identità culturali, stili di vita.

Lo studio delle società si nutre sempre di immaginazione: una immaginazione finalizzata a concettualizzare realtà, fenomeni non contemplati dall'accumulo analitico ereditato dal passato. Due anni fa, è accaduto un imprevisto, la crisi economica. Non le sembra che questo fenomeno inatteso metta in discussione le sue tipologie sull'individuo?
Ho seguito con molto interesse le discussioni sull'incapacità degli economisti di prevedere la crisi. E mi ha colpito la spiegazione data. Per alcuni, l'incontro della prospettiva neokeynesiana con quella neoclassica ha incentivato l'uso di modelli matematici che non avevano nessun rapporto con la realtà. Ma al di là di questa spiegazione, ci sono stati economisti, non sospetti di estremismo, che invece della possibilità di crisi ne hanno scritto. Mi riferisco a Amartya Sen, Paul Krugman e Joseph Stiglitz che, per spiegare quello che poi è effettivamente accaduto hanno usato ordini del discorso che con l'economia aveva pochi punti di contatto. La crisi, secondo me, non mette in discussione questa centralità dell'individuo. Anzi, c'è il rischio che accentui i rischi della chiusura, l'impermealizzazione di ognuna delle diverse tipologie di cui ho parlato prima.

Eppure è una crisi che ha effetti tellurici, sia socialmente che politicamente. Lei ha sostenuto che la globalizzazione era un fenomeno irreversibile. Domanda da avvocato del diavolo: non è che la crisi abbia messo in moto un fenomeno di deglobalizzazione?
Non ne sono affatto convinto. Quello che è entrato in crisi è il modello di globalizzazione neoliberale a egemonia statunitense.

Non può però negare che la crisi metta in discussione l'equilibrio tra dimensione globale e dimensione locale, dove il globale comandava sul locale?
Preferisco parlare di dimensione glocale, per quanto sia un termine poco attraente. Negli anni passati, i teorici neoliberali della globalizzazione hanno sempre parlato di esautoramento, se non di fine dello stato nazionale. Era una tesi sbagliata. Lo stato-nazione ha sempre svolto un ruolo importante nella globalizzazione. Non solo di interfaccia tra dimensione globale e dimensione locale, ma come processo di adattamento glocale. Lo stato è stato importante perché ha costituito l'ambito di tenuta della democrazia rispetto al potere dell'economia. Inoltre ha cercato di salvaguardate quei diritti sociali di cittadinanza che hanno caratterizzato le società capitaliste. La crisi può avere effetti tellurici non per quanto riguarda la globalizzazione, cioè quella stretta interdipendenza tra economie e realtà sociali nazionali, ma proprio per la democrazia. Uno degli effetti può essere invece l'emergere di stati autoritari e antidemocratici sulla scena globale.

La crisi significa anche disoccupazione. In Francia abbiamo assistito a conflitti dove operai sequestravano dirigenti di imprese, minacciando di far saltare gli stabilimenti. Oltre alla drammaticità della situazione, emergeva una realtà operaia che poteva essere meglio spiegata con il meccanismo della rivolta dei poveri. Lei che ne pensa?
Ho seguito con interesse anche alcuni conflitti operai in Italia, dove i lavoratori andavano sui tetti delle fabbriche: quando c'è crisi, il movimento operaio è sempre in difficoltà e talvolta può scegliere forme di lotta che non appartengono alla cultura politica del movimento stesso. È sempre stato così. Ma dobbiamo fare i conti anche con il fatto che la globalizzazione neoliberale ha significato aumento della precarietà. Forse stiamo assistendo a forme di lotta di un movimento operaio dove la maggioranza dei lavoratori è precaria. Per il momento, sono spettacolari, ma non violente. Non è detto che con la crisi le cose non cambino.

www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20100217/pagina/11/pezzo/271679/ 

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Di Carvelli (del 18/02/2010 @ 15:00:03, in diario, linkato 923 volte)

Se qualcuno un giorno mi chiedesse cosa mi ricordo di Osaka dovrò rispondere un enorme diffuso centro commerciale, il mal di piedi e un film. Questo

ovvero Ururu No Mori No Monogatari. Mi rassegno al riposo di un comodo multisala e riprendo fiato prima di Kobe. Lo vedo in giapponese eppure riesco lo stesso a piangere, più o meno quando piangono tutti gli altri giapponesi ma non per contagio. La storia è quella di questo dolce lupacchiotto e dell'amicizia con due fratellini. la musica era di Joe Hisaishi autore delle colonne sonore di Principessa Mononoke e dei film di Kitano. Tra le altre di Summer, il tema di Kikujiro. Questo

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Di Carvelli (del 19/02/2010 @ 08:58:30, in diario, linkato 729 volte)
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Di Carvelli (del 19/02/2010 @ 09:00:42, in diario, linkato 784 volte)
Regali che non regalo
parole che non dico
muri che non abbatto
cani che abbaiano
un sogno che non ricordo
domani o oggi
oggi, forse
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Di Carvelli (del 19/02/2010 @ 09:13:48, in diario, linkato 790 volte)
Rivedrei volentieri questo film bellissimo. Con questa battuta di straziante negazione. Personale, ontologica. Assoluta e viva. "Parli di sentimenti che non provo, che non esistono, a cui non ho accesso. Io non ti amo". Credo che sia una delle battute più violente che ricordi in un film. Un cuore in inverno. Che è un titolo di grande forza evocativa.
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Di Carvelli (del 22/02/2010 @ 08:47:52, in diario, linkato 993 volte)

Non ho seguito Sanremo, non avendo la tv. Non avendola istituzionalmente. Del poco che ho sentito per radio ho apprezzato queste due canzoni. Non le ho televotate ma le linkovoto qui.
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Di Carvelli (del 22/02/2010 @ 08:52:05, in diario, linkato 960 volte)
In rete con te. Con quello che fai, che ti succede. Misteriosamente in paralello. Facciamo un incidente nello stesso identico punto a distanza di due anni. Perdiamo la targa nello stesso giro di giorni. Siamo in rete. Io e te. Tutti. Secondo un sistema di gradi di separazione, siamo tutti in rete. Più le maglie sono vicine più ci succedono cose simili. Mi dico che la rete funziona per tutti. Che se ci avviciniamo diventiamo due funzioni di uno stesso gioco di probabilità. Più esatto.
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Di Carvelli (del 22/02/2010 @ 10:07:43, in diario, linkato 962 volte)

Segnalo due documentari di amici. Uno si chiama Lettera22 ed è del mio amico Emanuele Piccardo. Se ne parla oggi in relazione all'anniversario imminente della morte del grande Adriano Olivetti, uno dei più citati a sproposito geni del mondo del lavoro. Della sua organizzazione culturale di cui l'Italia e il mondo degli uffici si appropriano ancora con mediocre aspirazione valoriale si scopre la portata vastissima in queste interviste e immagini del fotografo di architettura Piccardo. L'altro STORIE DI RESISTENZA QUOTIDIANA si deve a una coppia di amici Paolo Maselli che lo ha diretto e Daniela Gambino che lo ha scritto. Qui si parla di pizzo, di mafia, di Palermo, terre confiscate e reduci. Resistenza, insomma, in salsa isolana. Vi linko due trailer e vi auguro di imbattervi nella visione completa dei due docu.
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