Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Una parola che non mi entusiasma. La ripeto e non mi entusiasma. Provo a trovare dei sostituti. Tutti i sinonimi sono poveri di spessore, non hanno colore o hanno un colore troppo diverso dall'originale. Li trovo vuoti. Anche quelli più altisonanti. Tutte le alternative non hanno abbastanza volume. Usarle finirebbe per far sembrare la sostituzione pretestuosa, capricciosa. Provo a ripensare se il problema in fondo non possa essere solo un problema di pronuncia. Forse la parola in questione va detta con un'intonazione che nasconda il suo ingombro, che mistifichi la sua capacità di essere pervasiva, alta. Deve essere una cosa così: una modestia del pronunciamento. La parola è
Di Carvelli (del 19/10/2014 @ 10:50:26, in diario, linkato 1099 volte)
Dico la parola “domenica”/ come se fosse un cane zoppo./ So il nome della gamba che manca/ ma non lo dico./ Conosco l’andatura strascicata e flatulenta/ di un animale che mangia quel che capita,/ dove capita./ Vicino ai cassonetti,/ fuori dai ristoranti chiusi e naufragati/ dopo un sabato di coperti e comande./ La parola “domenica”/ e insieme il tuo nome lontano/ di te lontana/ della tua parola “domenica”/ del tuo nome/ che non dico/ per non chiamare il miracolo./ Ma ascoltarlo solo/ nella parola che non dico./ “Domenica”.
Di Carvelli (del 03/10/2014 @ 12:59:38, in diario, linkato 1045 volte)
La questione è semplice: quanta fiducia abbiamo nella letteratura? O – per dirla altrimenti, nell’altra metà del bicchiere – che tipo di sfiducia abbiamo sviluppato in questi anni intorno alla letteratura? Di che natura è? Da quando abbiamo iniziato a pensare al genere – non a tutti i generi – come una forma di elisir, quanto meno per il tema “letteratura? Ne siamo consapevoli? Lo rifaremmo? In questi anni sono nate collane? Che scopi si proponevano rispetto alla letteratura? Chi le curava sente di avere assolto a un suo dovere “intellettuale”? Pensa di aver contribuito al vasto registro delle opere d’ingegno di quel particolare archivio che va sotto il nome “letteratura”? Può fare riduzioni del suo operato, dell’ascolto che ha avuto, del lavoro editoriale che ha effettuato sui testi che ha scelto? Tracciare una linea di congruità e di evoluzione? Se quel libro è scomparso dalla circolazione (“uscito dal catalogo” ha il suono di una più grave licenza) ritiene che possa avere ancora senso ripubblicarlo? Trovare un gusto più moderno del packaging editoriale potrebbe ridare a quell’oggetto-libro nuova vita “letteraria” che non sia archeologica? E altre domande (fuori da queste domande): ha ancora ragione d’essere la letteratura in questa sua particolare forma “autoriale” pura – per distinguerla da un’impura, che media attraverso l’accesso al genere il suo contributo? Esistono case editrici che sentono di aver assolto (o per lo meno di aver provato a bilanciarlo con quello necessario del profitto) al ruolo di contributori del discorso letterario?
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