Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Rivedrei volentieri questo film bellissimo. Con questa battuta di straziante negazione. Personale, ontologica. Assoluta e viva. "Parli di sentimenti che non provo, che non esistono, a cui non ho accesso. Io non ti amo". Credo che sia una delle battute più violente che ricordi in un film. Un cuore in inverno. Che è un titolo di grande forza evocativa.
">.
Regali che non regalo parole che non dico muri che non abbatto cani che abbaiano un sogno che non ricordo domani o oggi oggi, forse
Di Carvelli (del 18/02/2010 @ 14:32:42, in diario, linkato 2352 volte)
LA CRISI CHE IRROMPE NEL REGNO DEGLI INDIVIDUI di Benedetto Vecchi Intervista ad Alain Touraine
L'eclissi del modello neoliberale di globalizzazione produce disoccupazione e una dilagante precarietà, ma non coincide con il ritorno al capitalismo degli stati nazionali. Semmai alimenta un rinnovato individualismo che vede donne e uomini in movimento per affermare i propri diritti, uno stile di vita comunitario o una identità culturale e religiosa. Un'intervista con lo studioso francese Le moderne società al centro della scena l'individuo. E non potrebbe essere altrimenti, perché sono plasmate e dominate da un principio di individuazione che mette in discussione il concetto stesso di società. Una tesi, questa, che lo studioso francese Alain Touraine presenta come esito di un fenomeno di lunga durata, iniziato nei gloriosi e dorati trenta anni di sviluppo economico interrotti dalla crisi petrolifera del 1973 e accelerato con la globalizzazione. L'individuo che Touraine presenta è sì consapevole dei suoi diritti e si «mette in movimento» per affermarli, ma al tempo stesso rifugge ogni nostalgia per trasformazioni messianiche della società. D'altronde, Touraine si è sempre definito un «riformista radicale» e vede, nell'agire politico, l'ambito per affermare l'autonomia e l'indipendenza dei singoli dal potere costituito. Allo stesso tempo, non offre nessuna lettura apologetica di questo «nuovo individualismo», insistendo semmai sui rischi di autoreferenzialità. Alain Touraine è in Italia su invito della facoltà di Sociologia dell'Università La Sapienza di Roma, dove ha presentato il suo ultimo libro - Pensiero altro, Armando editore -, mentre per oggi è prevista una sua Lectio Magistralis alla facoltà di Architettura di Roma (ore 10, via di Valle Giulia).
Nel suo libro «Pensiero altro» lei sostiene che la società non esiste più, mentre l'individuo è diventata la figura che meglio spiega le tendenze profonde del vivere collettivo..... La società non esiste più come strumento analitico. L'individuo a cui faccio riferimento non è però da considerare una via d'uscita dalla difficoltà di rappresentare analiticamente la società. Parto dalla constatazione che nel capitalismo esiste la forte tendenza a individualizzare tutto, dai consumi ai rapporti di lavoro. Potremmo parlare di una società di individui ma, così facendo, si alimentano molti equivoci. È dunque necessario articolare meglio le tipologie emergenti di individuo. C'è l'«individuo consumatore», verso il quale le imprese guardano con attenzione per meglio affinare le loro strategie di marketing. Ci sono poi uomini e donne che, in quanto individui, vogliono vivere con chi ha le stesse convinzioni religiose o identità culturali. È questa la tipologia dell'«individuo comunitario». C'è, infine, chi vuole affermare i propri diritti, ritenendoli diritti universali. Qui ci troviamo di fronte a «soggetti» illuministicamente intesi. La compresenza di questi tre tipi di individuo può essere meglio compresa se facciamo riferimento al concetto di Anthony Giddens sulla modernità riflessiva. Lo studioso inglese ha sostenuto che le moderne società capitaliste hanno sviluppato una capacità riflessiva sulle conseguenze delle scelte prese collettivamente. Per questo, tanto la scelta che le procedure per applicarla sono fortemente condizionate da tale capacità riflessiva. Una tesi che merita di essere applicata all'individuo, perché tutte e tre le tipologie che ho illustrato manifestano tale «riflessività». Così i consumatori non sono prede inermi delle strategie di marketing, ma sviluppano una loro capacità di autonomia dal mercato. Lo stesso si può dire degli «individui comunitari», che non considerano la loro comunità elettiva una gabbia.
Sono però tipologie che possono essere attraversate dalla stessa persona. Un individuo può autorappresentarsi come consumatore, ma anche come un esponente di quel comunitarismo che fa leva sul concetto «io-noi», oppure quale soggetto portatore di diritti... Mi sembrano invece tipologie impermeabili. Per quanto suggestiva sia la tesi di Giddens sulla modernità riflessiva, questo non cancella il rischio che sia l'individuo-consumatore che l'individuo-comunitario che il soggetto, si chiudano in loro stessi. Oltre che riflessiva, la nostra è una società simbolica. Rispetto al passato, gli individuo producono e controllano la produzione dei simboli che ritengono rilevanti nella loro vita. Possiamo dire che ognuno desidera essere riconosciuto anche come produttore di simboli. La lotta per il riconoscimento può condurre a una chiusura rispetto all'Altro, a quella impermealizzazione che io vedo operante nella realtà contemporanea.
Oltre alla morte della società, lei sottolinea l'eclissi dei movimenti sociali... Più che eclissi, c'è la crisi del paradigma che vedeva i movimenti sociali come espressione di determinati interessi economici, di gruppo o di classe. Da molti anni io sottolineo la rilevanza dei temi culturali e dell'identità nei movimenti sociali. Ma suppongo che lei volesse chiedermi se anche questa lettura dei movimenti sociali sia entrata in crisi. Beh, credo che ci sia stato un mutamento importante. Chi partecipa ai movimenti sociali, non è solo interessato a qualificarli dal punto di vista della cultura o dell'identità che vuole riconoscimento. Ci mette anche una forte componente di affettività, di cura di sé e dell'altro, come emerge per esempio dai movimenti femministi. In questi giorni, ho incontrato alcune uomini e donne che voi in Italia chiamate il «popolo viola». Sono rimasto colpito dal pathos, dall'insistenza sulla cura della democrazia, della costituzione politica, del legame sociale. È questa affettività la vera novità. Più che parlare di movimenti sociali, possiamo dire che ci sono uomini e donne disposti a mettersi in cammino.
Questa idea di mettersi in cammino, in viaggio, è molto zapatista, un movimento che lei ha studiato... Gli zapatisti hanno operato una rottura con le vecchie concezioni della guerriglia latinoamericane. Hanno preferito l'espressione «camminare, domandando». In questo, prefiguravano che non c'era una realtà sociale organizzata e predefinita, ma uomini e donne disposti a mettersi, come dice lei, in movimento. In forme diverse, accade anche da noi che ci si metta in cammino per affermare diritti, identità culturali, stili di vita.
Lo studio delle società si nutre sempre di immaginazione: una immaginazione finalizzata a concettualizzare realtà, fenomeni non contemplati dall'accumulo analitico ereditato dal passato. Due anni fa, è accaduto un imprevisto, la crisi economica. Non le sembra che questo fenomeno inatteso metta in discussione le sue tipologie sull'individuo? Ho seguito con molto interesse le discussioni sull'incapacità degli economisti di prevedere la crisi. E mi ha colpito la spiegazione data. Per alcuni, l'incontro della prospettiva neokeynesiana con quella neoclassica ha incentivato l'uso di modelli matematici che non avevano nessun rapporto con la realtà. Ma al di là di questa spiegazione, ci sono stati economisti, non sospetti di estremismo, che invece della possibilità di crisi ne hanno scritto. Mi riferisco a Amartya Sen, Paul Krugman e Joseph Stiglitz che, per spiegare quello che poi è effettivamente accaduto hanno usato ordini del discorso che con l'economia aveva pochi punti di contatto. La crisi, secondo me, non mette in discussione questa centralità dell'individuo. Anzi, c'è il rischio che accentui i rischi della chiusura, l'impermealizzazione di ognuna delle diverse tipologie di cui ho parlato prima.
Eppure è una crisi che ha effetti tellurici, sia socialmente che politicamente. Lei ha sostenuto che la globalizzazione era un fenomeno irreversibile. Domanda da avvocato del diavolo: non è che la crisi abbia messo in moto un fenomeno di deglobalizzazione? Non ne sono affatto convinto. Quello che è entrato in crisi è il modello di globalizzazione neoliberale a egemonia statunitense.
Non può però negare che la crisi metta in discussione l'equilibrio tra dimensione globale e dimensione locale, dove il globale comandava sul locale? Preferisco parlare di dimensione glocale, per quanto sia un termine poco attraente. Negli anni passati, i teorici neoliberali della globalizzazione hanno sempre parlato di esautoramento, se non di fine dello stato nazionale. Era una tesi sbagliata. Lo stato-nazione ha sempre svolto un ruolo importante nella globalizzazione. Non solo di interfaccia tra dimensione globale e dimensione locale, ma come processo di adattamento glocale. Lo stato è stato importante perché ha costituito l'ambito di tenuta della democrazia rispetto al potere dell'economia. Inoltre ha cercato di salvaguardate quei diritti sociali di cittadinanza che hanno caratterizzato le società capitaliste. La crisi può avere effetti tellurici non per quanto riguarda la globalizzazione, cioè quella stretta interdipendenza tra economie e realtà sociali nazionali, ma proprio per la democrazia. Uno degli effetti può essere invece l'emergere di stati autoritari e antidemocratici sulla scena globale.
La crisi significa anche disoccupazione. In Francia abbiamo assistito a conflitti dove operai sequestravano dirigenti di imprese, minacciando di far saltare gli stabilimenti. Oltre alla drammaticità della situazione, emergeva una realtà operaia che poteva essere meglio spiegata con il meccanismo della rivolta dei poveri. Lei che ne pensa? Ho seguito con interesse anche alcuni conflitti operai in Italia, dove i lavoratori andavano sui tetti delle fabbriche: quando c'è crisi, il movimento operaio è sempre in difficoltà e talvolta può scegliere forme di lotta che non appartengono alla cultura politica del movimento stesso. È sempre stato così. Ma dobbiamo fare i conti anche con il fatto che la globalizzazione neoliberale ha significato aumento della precarietà. Forse stiamo assistendo a forme di lotta di un movimento operaio dove la maggioranza dei lavoratori è precaria. Per il momento, sono spettacolari, ma non violente. Non è detto che con la crisi le cose non cambino.
www.ilmanifesto.it/il-manifesto/in-edicola/numero/20100217/pagina/11/pezzo/271679/
Sul numero corrente di Zoe Magazine la mia non-intervista all'indimenticato sceneggiatore felliniano e autore teatrale Tullio Pinelli.
Tullio Pinelli, intervista impossibile (o mancata)
di Roberto Carvelli
Un giorno di novembre ho preso e ho chiamato. Ho cercato di calcolare il tempo per essere certo di non disturbare. Era novembre. Tullio Pinelli, indimenticabile sceneggiatore dei grandi film di Federico Fellini, aveva compiuto 100 anni il 24 giugno del 2008, sapevo che stava bene, che rispondeva lui al telefono. Il numero lo avevo chiesto a quelli della casa editrice Edizioni Sabinae che gli avevano pubblicato per l’occasione un soggetto cinematografico, L’uomo a cavallo (15 €). Il telefono squillava a vuoto. E’ stato così per alcuni pomeriggi. Mi domandavo se forse non erano le ore giuste per l’età di questo autore di teatro, letteratura e cinema. Poi, una sera, mi ha risposto la moglie, gentile, con il suo accento francese: “Pinelli sta male, Pinelli ricoverato in una clinica”. Lo chiamava per cognome. Le ho spiegato che avrei voluto intervistarlo per un libro su l’amore a Roma. E anche dopo che Amarsi a Roma era finito ho riprovato lo stesso a chiamare per sapere come stava “Pinelli”, come se fosse un filo che dovevo ancora tirare. Anche ora che il libro è in giro nelle librerie mi domando cosa avrebbe potuto dirmi: L’amore che raccontavano ai tempi di Fellini de La dolce vita era ancora attuale? Si potrebbe raccontarlo ancora così? Qualche giorno fa ho saputo che Pinelli è venuto a mancare e ho pensato che la risposta, se la volevo, me la sarei dovuta dare da me per non lasciare una riga bianca alla mia curiosità. Con Pinelli se ne è andato un pezzo di cinema italiano, un pezzo importante. Prima di lui – per rimanere agli sceneggiatori – se n’era andato Ennio De Concini di cui ho ricordi personali: molti anni fa... 1990?... lo andai a trovare nella sua casa seminterrata a via Stoppani a Roma, di fianco al cinema Embassy per sapere di alcuni racconti che gli avevo spedito. Le sue parole le ho in mente, stampate: “Lei vuole scrivere... Deve sapere che è una vita da cenobita. Si tratta di stare in cima a una colonna e digiunare. Se la sente?”. Altre risposte da trovare da soli. Prima ancora se n’era andato Ugo Pirro, anche lui sceneggiatore da Oscar. Io, come molti della mia generazione, sono andato ai suoi corsi “democratici”. Pinelli, invece, fino ad ora, lo avevo solo intercettato negli anni ma, nell’occasione del libro, mi era sembrato utile interrogarlo direttamente. Ne L’uomo a cavallo, che citavo prima, c’è un’intervista a lui che ne ripercorre la vita: quella partigiana con tanto di pallottole (una rimasta conficcata nella spalla), l’amicizia da banco di scuola e seguito con Cesare Pavese, l’inizio della carriera legale, la passione per i girovaghi – altro segno di affinità elettiva con Fellini, il teatro. Faccio ricorso ai libri per coprire lo spazio del non detto. In un’altro recente volumetto (Federico Fellini Ciò che abbiamo inventato è tutto autentico. Lettere a Tullio Pinelli – Marsilio 9 €) si intuiscono gli scambi tra i due e c’è una nuova intervista in cui lo sceneggiatore rievoca l’amicizia con il regista riminese. Dal libro viene fuori il grande legame, nella chiave un po’ vampiresca con cui Fellini era solito intendere i rapporti più vicini. E viene anche fuori il senso del limite necessario, incarnato spesso dal Produttore, ultima forma di controllo della fantasia, ma anche dalla necessità di chiudere le storie, per farle essere. E’ in questa chiave che penso oggi che tutto quello che mi stava a cuore di chiedere a Pinelli sull’autenticità dell’amore della Dolce vita trova una risposta vera proprio in questa linea di confine tra fantasia e concretezza. Una linea che anche la nostra vita, a guardare bene, passa spesso, fino alla fine, dove si chiudono le storie, quelle scritte e quelle vissute. Ecco come riempio la mia riga bianca.
www.myvirtualpaper.com/doc/Zoe-Magazine/zoe251/2009121501/101.html
La mia ossessiva amica nonché collega me l'ha propinata in ogni salsa ieri...la sua malattia a scoppio nostalgico-malinconico. Poi, come se non bastasse, in macchina (che già mi pesa scrivere la parola se guido io) sotto una pioggia a dirotto, il tergicristallo e il suo sinistro cigolio, la gente che prova a infilarsi ovunque, la cortina di fumo del sigaro...dopo tutto questo e qualcos'altro che non ricordo, eccola di nuovo. Come un segno. Ossessivo pure lui
">.
Prima di andare un po’ più avanti devo raccontare un fatto successo appena qualche tempo prima che Giuseppe e Anna si conoscessero. Un fatto piccolo e apparentemente ininfluente. Una sera Anna è uscita con un’amica – una cosa che, in verità, non le capita da un po’ – perché ha deciso che non può stare seppellita a casa indefinitamente. Quest’ultima asserzione che lei riverbera come un assioma deve essere una frase che qualcuna o qualcuno le ha detto con premura e lei ora ripete un po’ oggettiva. Una verità indiscutibile che ora è lì a fare da semplificatore, una specie di invito all’abbandono di questa lunga penitenza.
Così ecco Anna e Laura – questo il nome dell’amica – che escono. Il pretesto è un concerto in un locale minuscolo a Prati – non l’ho ancora detto ma questa storia si svolge a Roma e Prati, per chi non lo sa, è un quartiere a ridosso del Vaticano – dove si sono date appuntamento Anna e Laura. Il concerto non è nulla di straordinario e forse interessa loro solo perché qualcuno della band è amico alla lontana di qualcun altro di cui è amica alla lontana Laura. Anna è andata un po’ per sfida con se stessa, come già detto, e comunque non con una passione per il genere musicale (già, qual è il genere musicale del concerto in questione?) della band. Neanche Laura può essere raccontata come un’appassionata o esperta di musica.
Fuori dal locale, che non è stato difficile trovare, salvo una estenuante – per Laura – ricerca di parcheggio, ci sono le due donne e un gruppetto di persone che fumano spegnendo i mozziconi in un posacenere alto di alluminio, troppo elegante per stare all’esterno. Laura è arrivata per prima, dieci minuti soli prima di Anna, abbastanza per farsi dare noia da un ragazzo con una bella parlantina ma un po’ ottuso che le ripete in continuazione le stesse cose (“aspetti qualcuno? Entri o aspetti qualcuno? Ci vediamo dentro o aspetti ancora qui?”) annullando la capacità dialettica di cui ha dato prova un minuto prima. Laura deve aver pensato che a rovinare tutto spesso basta una sola parola. Una sola parola contro dieci buone. Ma è un discorso che ha a che fare con la soglia di sopportazione di ognuno. La sua, la sua di questo periodo, è bassa davvero, pensa, e fa in tempo a veder spuntare la sagoma sul marciapiede di Anna per tirare una boccata d’aria. E una di fumo, prima di spegnere nella sabbia grigia del grande, sproporzionatamente bello, inutilmente elegante posacenere di un locale romano più dimesso dentro che fuori.
- Scusami ma mentre mi preparavo a uscire mi ha preso male. Volevo restare a casa ma mi dispiaceva darti buca all’ultimo. Ci ho pensato, sai? Forse ho sbagliato, è ancora presto per uscire. Non credo sia una buona idea. Ti dispiace se andiamo a mangiare una pizza o a bere una birra veloce in un pub e ce ne ritorniamo a casa?
Laura la guardava con un misto di compatimento triste e responsabile. Pensava che, forse, se Anna era uscita era solo per la sua insistenza e ora aveva un’aria colpevole mista all’ansia di salvare una uscita nata male.
- Entriamo un attimo, dài. Se non ci piace riusciamo e ce ne andiamo.
- Non mi sento…
- Un attimo solo, dài?
Laura tutto sommato era propensa a dare un’altra possibilità al tipo che aveva tentato di sedurla in un modo tra l’inopportuno e il divertente. Ma alla nuova negazione di Anna si era decisa ad assecondare l’amica e ora cercavano qualcosa lì intorno, proprio per non privare di senso la snervante ricerca di un posto per la macchina.
Dopo erano davanti a un pub dall’aria non esclusiva né elegante. Entravano senza pensare ad altro che a prendere quella birra veloce e via: ognuno verso casa sua. Per Laura una serata comunque passata fuori dalla monotonia domestica; per Anna la prima sera fuori casa da tempo. Già: da quanto tempo?
Inizio con la pubblicazione odierna un testo a puntate dal titolo completo Vi espongo i fatti. Lo aggiornerò a cadenze irregolari.
Amami una manciatina
Quello che so di Giuseppe e Anna e che qui riferisco lo so in massima parte per esperienza diretta. In parte per l’inevitabile intermediazione di una comune amica.
In definitiva, penso, il fatto dell’amore è un fatto non di soli ingredienti ma di quantità. Non scrivo “posologia” perché non vorrei che voi pensaste che lo dico per cercare facili parentele con la medicina e sottintendendo insanità o problematiche. Forse non lo scrivo perché lo penso. Ovvero lo rimuovo. Forse no. Forse è solo che mi piacciono metafore culinarie. Una scelta di campo un po’ leggera, un modo di partire senza imbarazzi, giudizi perentori.
Se Anna avesse dovuto quantificare il suo bisogno d’amore avrebbe detto “amami una manciatina”. Nelle ricette è scritto Q.B. Quanto Basta. Eppure Anna, decisamente dotata di e portata a un parlare meno specialista, avrebbe preferito l’eloquio di qualche vecchia nonna o di un manuale di cucina più esperienziale, senza tecnicismi. Amami una manciatina. Ecco cosa chiederebbe Anna a chi dovesse mai avvicinarla con intenzioni affettuose. Ma non è cosa che dice, né che confessa a nessuno. Né che scriverebbe nella pagina di un suo diario. (Ha un diario Anna?)
Amami una manciatina. Anna vorrebbe che l’amore la raggiungesse a velo, come lo zucchero. Un gesto della mano che sparge un po’ di pan grattato e fa la crosta in superficie. Deve trattarsi più che di un bisogno contenuto di una cautela. Quando e finché Anna pensa all’amore in una forma così leggera si sente sicura, sente di non dover temere nulla. Insomma, solo così Anna è tranquilla e può pensare ora – almeno per ora – all’amore in una forma non dolorosa.
|
|
Ci sono 5355 persone collegate
<
|
novembre 2024
|
>
|
L |
M |
M |
G |
V |
S |
D |
| | | | 1 |
2 |
3 |
4 |
5 |
6 |
7 |
8 |
9 |
10 |
11 |
12 |
13 |
14 |
15 |
16 |
17 |
18 |
19 |
20 |
21 |
22 |
23 |
24 |
25 |
26 |
27 |
28 |
29 |
30 |
|
|
|
|
|
|
|
|
|