Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Ieri abbiamo visto Happy Family di Gabriele Salvatores e ci è piaciuto. Di seguito spiegherò il mio perché. Ma prima una premessa. Anzi due.
Prima premessa. Per me il cinema si divide in film fatti bene e film fatti male. E quindi: non in cinema d'autore e cinema di genere. Ma bene e male. Lo ammetto sono un recensore da Concilio Vaticano II, da Santa Inquisizione ma no dài... Bene e male sta solo per funziona/non funziona. In definitiva il cinema non è d'autore (bene) di genere (male).
Seconda premessa: del film in questione avevo letto una critica (in Internazionale) in una parola. Pointless. Chiedo aiuto al vocabolario
Pointless agg. 1 senza punta privo di punta spuntato. 2 (fig) (meaningless) privo di senso, privo di scopo, senza significato. 3 (colloq) (useless, futile) inutile, superfluo: it's pointless to complain è inutile lamentarsi. 4 (Sport) senza segnature.
Come ovvio il recensore ce l'aveva con l'apparente gratuità dell'intreccio. La sua non necessità. La parola è bella e la riuserò. Prima di tutto in senso autoreferenziale perché io sono molto pointless. Già ma di questo non si lamenta nessuno (non è vero si lamentano in molti!). In genere. Diciamo che ne ho fatto a volte una qualità come di tante cose che faccio storte e alterne. Tipo volere bene (ma tanto) ma a intervalli. Tipo essere generoso (ma tanto) ma a intervalli. E cose così, che faccio a intervalli.
Basta con le premesse. Io credo che il più pericoloso dei difetti di Salvatores (anche per Tornatore vale un simile discorso anche se con sostanziali differenze)... - anche lui ne ha fatto a volte un pregio - è il rischio della retorica delle idee e della bellezza. Ma siccome ha una grande capacità di lavorare sulle forme e sui sentimenti ha fatto film formalmente belli e commoventi (vedi vocabolario). Ed è un pregio. Vista certa pedanteria e understatement italico insistito e ricercato, sbandierato. Detto ciò come accade anche nella letteratura la valutazione si deve spostare. Ci si deve chiedere se in quelle forme apparentemente così curate ci sia del contenuto. Da libero pensatore autodidatta penso che c'è da condividere l'accezione delle filosofie orientali, di cui credo anche Salvatores sia conoscitore o appassionato, per cui la forma può essere in effetti vuoto, la forma può essere contenuto e il contenuto può essere forma (ecco il perché di tanti film autoriali che ci giungono fastidisosi, inutili, pointless... visto che l'ho imparato lo dico!). Insomma ieri ho pensato che nelle pieghe di questo gioco sui personaggi (scomposizione delle loro funzioni, film nel film, verità/finzione ma senza intellettualismi) Salvatores abbia composto un'opera interessante, divertente e leggera, di quella leggerezza pensosa che riesce a nascondere nelle pieghe di un game dei significati. E questo è un merito. Non mi sarei soffermato negativamente (se appunto fossi un qualificato recensore) sul gioco del game (scusate la tautologia) fatto di citazioni monocrome almodovariane, sui pirandellismi, su una certa aria smielata volutamente riecheggiata dalle note di Simon &Garfunkel. Quelle sì forme, forme del gioco ma sulla divertente disposizione dei personaggi, sulla loro buona direzione/recitazione (solo Abatantuono l'ho trovato un po' sacrificato in un cliché ma era il game in questione) sui doppi finali, sul meccanismo della trasformazione pur se nell'irrinunciabilità dei finali salvatoresiani che tutti conosciamo. Escatologici e fricchettoni (politici). Una cifra, la sua. Lasciamogiela.
Tre giorni tre barbecue tre case. Carne come se piovesse (o nonostante piovesse).
Ha detto "sono di Fermo provincia di Ascoli Piceno e sono fiero di non essere romano". La signora dice "ma chi te c'ha chiamato, ma chi te ce vole a Roma. Stavamo mejo quanno eravamo tutti romani".
Tanta è l'abitudine che se mi chiamano per nome e non per cognome penso che ce l'hanno con qualcun'altro.
Ogni giorno la fisioterapista mi chiede a che punto sono. Le spiego che non è l'unico libro che leggo (1984) perché in effetti mi vede da giorni e sto più o meno allo stesso punto. Il punto di oggi è questo: "In linea di principio, lo sforzo bellico è pianificato in modo da divorare ogni bene eccedente i bisogni fondamentali della popolazione. In effetti, i bisogni della popolazione sono costantemente sottovalutati, con la conseguenza che vi è una carenza cronica di una buona metà dei beni necessari, ma a ciò si guarda come a un vantaggio".
Come in un gioco infantile che non porta ad altro che a una grammatica che non parlerai metti vicino il tuo al mio nome. Non serve a niente - devo dirtelo - sacrificare lettere sull'altare ollare della paura. Meglio sarebbe un gesto - posso dirtelo? - di quelli che nascondono arcobaleni. Costa di più - puoi dirmelo - ma dura di più (va da sé).
Io mi ricordo Roberta in una cena nella sua casa del Centro, vicino Piazza dell'Orologio, casa con un grande terrazzo che doveva lasciare. Una casa che mi ricordo due volte. Due cene. Casa che forse sdoppio. Poi mi ricordo Roberta al telefono con la sua voce cavernosa da fumatrice incallita che mi chiedeva con discrezione un dato che le mancava "Scusa se te lo chiedo ma tu sei omosessuale?". E le sembrava strano che non lo fossi. Che fossi "così" senza esserlo. Ma mi conosceva poco. Dopo ci sentimmo diverse volte per il mio libro sulla pornografia. Lo recensì, mi intervistò, lo usò e mise in bibliografia nel suo rapporto Eurispes sulla pornografia. Rapporto che durò per sua meticolosità più del preventivato. Poi fui io ad intervistarla. Poi un giorno la incontrai per strada su via di Torre Argentina e tagliò corto "vado di fretta". Pur gentile così disse e s'incamminò lentissima. Purtroppo è questa l'ultima immagine che ho. E questo penso spesso della morte: una strada che ci chiama di fretta e verso cui andiamo, se possiamo, lentissimi.
da laRepubblica di oggi. www.repubblica.it/persone/2010/04/02/news/tatafiore-diario-3083355/
Roberta Tatafiore, il mio addio al mondo Il diario scritto prima del suicidio. Pubblicato il Memoir della femminista. Un lucido racconto che spiega la scelta di togliersi la vita. Prese un cocktail di farmaci e fu trovata morta l'8 aprile 2009DI SIMONETTA FIORI
«NON HO PIU' VOGLIA di reggere ai loro assalti. Preferisco comporre la mia morte». C'è qualcosa che inquieta e affascina nel commiato di Roberta Tatafiore, un lucido e appassionato diario che accompagna la scelta del suicidio. Ed è la normalità del suo gesto, non più pulsione estrema ma atto meditato, non scatto dissennato e violento ma scelta necessaria, una possibilità di vita che non ammette lacrime né intonazioni funebri, e nella sua naturalezza assai più conturbante della lacerazione prodotta dalla follia. Un corpo a corpo con la morte condotto per tre mesi attraverso una scrittura sorvegliata e nitida, quasi a voler difendere in tutti i modi - anche esteticamente - la dignità del congedo, spogliato di quel carico di risentimento che ogni suicidio porta con sé. Protagonista del primo femminismo e saggista curiosa dei territori marginali - specie il mercato del sesso e la prostituzione -, Roberta Tatafiore s'è suicidata l'8 aprile dello scorso anno. Ha salutato la sua casa romana dietro piazza Vittorio, imbucato le lettere per cinque amici, un breve passaggio dal parrucchiere - guai morire in disordine - e prenotato una stanza al "Novecento", un grazioso alberghetto di tre stelle all'Esquilino. La cameriera l'ha trovata agonizzante, sul comodino le Operette Morali di Leopardi e un cocktail micidiale di farmaci. Roberta aveva "composto" la sua morte con la stessa cura con cui preparava i suoi articoli: le missive "a orologeria", i regali postumi scelti con amore, la casa lasciata integra, senza ombre cupe di morte, confinate in un'anonima stanza di pensione. E poi questo straordinario journal del naufragio, documento unico nel suo genere, centoventi pagine che meticolosamente scandiscono la preparazione del gesto conclusivo, dal primo gennaio al 31 marzo del 2009. Il titolo scelto dagli amici è La parole fine, quasi a rimarcare la centralità della narrazione, tramite ultimo e necessario (Rizzoli, pagg. 150, euro 17, in libreria da mercoledì 7 aprile). «Poco prima di Natale», annota Roberta, «mi rendo conto che la morte è pronta, la scrittura mi trattiene». Le parole sono le uniche depositarie di senso. Ed è solo ad esse che si può affidare «la storia dopo la vita».
Quella che si svolge in Comporre la mia morte - così il titolo originario scelto dalla Tatafiore per il suo manoscritto - è una dolente «familiarizzazione con il suicidio», che comincia dalle donne capaci di «trasfigurare in poesia il gesto ultimo», Sylvia Plath ed Anne Sexton, Marina Cvetaeva ed Amelia Rosselli. La letteratura diviene l'ancoraggio in «quell'ondeggiare tra l'esistere e il dissolversi» che è la preparazione alla morte per propria mano. Di citazioni letterarie è ricco questo diario - da Pierre Bezukhov al principe Bolkonskij, dall'Adriano della Yourcenar al dostoevskiano Kirillov dei Demoni, da Levé a Camus -, suicidi fittizi e suicidi reali si rincorrono nelle pagine, ma non c'è compiacimento estetizzante, talvolta affiora anche un filo d'ironia per lo stile "casalingo" scelto da Plath o per i bei tempi andati in cui si poteva scegliere all'ultimo momento la stanza in cui morire - al modo di Pavese - senza dover prenotarla per tempo a causa del turismo di massa. Come se l'autrice fosse ben consapevole dell'inganno di quel gesto estremo, l'esibizionismo e l'ipertrofia dell'ego, e voglia ripararsene scavando nella verità dell'atto, fino a trovare quiete nelle parole di uno psichiatra, Giorgio Antonucci: «La scelta del suicidio non è pura e semplice volontà di morire. Ci si può uccidere per eccesso di voglia di vivere», quando le forze ti abbandonano. Quando non ti permettono più di "esercitare la virtù", scrive Roberta richiamandosi a Seneca. Quali fossero i fili spezzati della sua "turbinosa" esistenza - come la definisce Daniele Scalise nella meditata introduzione - emerge dalla storia famigliare, ferite mai curate che scaturiscono da un rapporto irrisolto con la mamma «intellettuale mancata» e da una relazione ancora più complicata con la figura paterna, rispettata ma mai amata. «Nata sotto le bombe, succhio nel latte materno lo sconquasso tardo e postbellico che investe la famiglia». Figlia della microborghesia foggiana, classe 1943, Roberta è resa fragile dalle fortune alterne del padre Guido, ingiustamente epurato dopo il fascismo, e dall'emancipazione incompiuta della madre, fino a quell'epilogo insensato che conferisce alla famiglia un destino di tragedia: l'uccisione del genitore - finalmente reintegrato a Roma - per mano di un pazzo. Roberta ha 18 anni, la sua vita definitivamente segnata. Ma le «fantasie mortifere» erano cominciate fin da bambina, come «un'antenna che capta il dolore disperso nell'aria». Può essere letto anche come un "gesto politico" il diario lasciato dalla Tatafiore. Coerentemente al suo profilo di combattente, la riflessione privata si rispecchia nella discussione pubblica sul testamento biologico e l'eutanasia (non casuale la sua scelta di pubblicare alcuni articoli dedicati al caso Englaro), e il senso di queste pagine si potrebbe riassumere nell'interrogativo: «A chi appartiene la vita? Credo che la vita appartenga a ogni individuo libero di affidarla a chi vuole in base a ciò che gli suggerisce la coscienza». Prima di arrendersi al dolore della sua esistenza, l'ultimo saluto è per "l'amica-che-sa", l'amica che con lei condivide l'agonia dell'attesa. La incontra nella sua casa, l'abbraccia e nell'accomiatarsi le dice che la saluterà dalla finestra. «Anche mia madre mi salutava così», dice l'amica. A Roberta è rimasta una sola certezza: «Le nostre madri, sono sicura, ci aiuteranno».
Siamo stipati in brevi loculi. Da una parte all'altra ci separa solo un muro sottile e non completo che lascia aria su in alto. Siamo pazienti, nei due soli sensi che conosco. Una signora oggi mormorava qualcosa. Non sono riuscito a capire cosa. Così a bassa voce parlava che arrivavano una manciatina di soffi come se stesse rimestando in un vaso pieno di sassetti. In aria, nell'intervallo tra il suo rimestio, una musica. Una di quelle che sento solo per radio, solo in una sala d'aspetto. Ma che, poi, ricordo e a volte canticchio o fischietto per la mezzora successiva. Questa, questa volta.
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