Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Purtroppo o per fortuna sono nato in una famiglia cattolica. Purtroppo o per fortuna sono nato in una famiglia con poca disponibilità economica (pur non essendo povera). Purtroppo o per fortuna ho vissuto chiedendomi se potevo o non potevo comprarlo. Purtroppo o per fortuna prima di comprare qualsiasi cosa sono stato abituato a chiedermi se ne avevo veramente bisogno. Purtroppo o per fortuna sto qui che mi domando se ho bisogno di vedere Celentano a Sanremo o sapere di che cosa ha concionato. Purtroppo non riesco nemmeno a dire "no, non ne ho bisogno" che già lo so. Per fortuna l'ho già dimenticato.
La (bianca) poesia di Villa Borghese di Roberto Carvelli
Nel momento in cui scrivo su Roma è caduta la soffice discesa della neve. Pochi giorni fa, invece, si è appreso della scomparsa di Wislawa Szymborska. Nel primo caso si è trattato di una previsione – che prima ha avuto tutta la forza titubante di una roulette – nel secondo di una inconfutabile asserzione. A Roma la neve ha una sua piccola casistica: 2010, 2005, 2004, 2002, 1999, 1996, 1991, 1986, 1985 e via così, andando a ritroso. La poetessa polacca, nobel alla letteratura nel 1996, è morta a ottantotto anni in una, non inusuale come a Roma, bianca e polare Cracovia una decina o una ventina (massime o minime) di gradi sotto lo zero. Di neve doveva saperne, lei. Certo più di noi che attendiamo ogni nuovo anno per fare di questa casistica di giorni bianchi una fila di anni più numerosi. Eppure nelle raccolte delle sue poesie che possiedo c’è pochissima neve. Forse quel che ci è più vicino non ci colpisce così come, invece, noi romani poco abituati al bianco della neve ci elettrizziamo solo nell’attesa. Poca neve dicevo nelle poesie di questa grande poetessa polacca ma molta morte – anche se mai disperata, amareggiata – qualche volta addirittura ilare: “Morire quanto è necessario, senza eccedere”. Persino un epitaffio, il suo: “Qui giace come virgola antiquata/ l’autrice di qualche poesia. (…)”. Una frase che forse in ragione del suo essere previdente avrà tolto ogni imbarazzo e incertezza agli inumatori dopo quelli della data mancante: 1 febbraio 2012. Nel momento in cui è stata scattata questa foto il viale degli ippocastani di Villa Borghese aveva questo giallo-marrone così autunnale e poetico. Nel frattempo avrà una poesia più bianca. E dei bambini la reciteranno tirando palle o facendo pupazzi per eternarla in gesti allegri e rari. Che perciò ricorderanno per sempre come io ricordo la neve del 6 gennaio 1985 e delle pallettate nelle tribune di un Lazio-Milan, poi sospeso per impraticabilità del campo. La neve avrà cambiato questo viale quel poco e per quel poco da farci pensare che persino i nostri giorni romani sempre uguali, uguali non sono. Anche se, per saperlo, basterebbe dotarci di un’attenzione più concentrata e lenta, fotografica. Anni fa a Villa Borghese fu dedicato un bellissimo libro-documento che catalogava immagini private raccolte negli anni del parco. Con tutto l’avvicendarsi di volti di famiglie e gruppi di persone colti nel loro saltuario passaggio festoso o festivo. Una specie di storia fotografica nelle epoche di cui non ricordo immagini con neve ma immagino che ce ne fossero. Una storia cominciata all’inizio del secolo XVII, continuata con il re Umberto I che la donò alla città e arrivata fino all’oggi di pappagalli verdi, biciclette o runner senza requie, coppiette e solitari foraggiatori di piccioni. Non so se la Szymborska, quando venne a Roma, almeno quella volta in cui arrivò per leggere al Goethe e andammo a sentirla e vederla così piccola dietro quel tavolo, silenziosa e lontana senza boria dal clamore di quel tributo di folla, sia stata portata in questa villa. Sono domande piccole o ricerca di risposte troppo piccole per avere un peso. Niente a che vedere con le sue questioni essenziali ma prudenti o imprudenti a seconda del caso. Anche se talvolta poi pentite: “Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte”. Niente a che vedere con le sue conclusioni universali che hanno reso la sua poesia trasversale e ricca di piani di lettura e di significati adatti a orecchie e occhi diversi. Versi che rimarranno nella nostra memoria come conclusioni di cui facilmente ci continueremo ad appropriare per la nostra piccola religione laica: “Devo molto/ a quelli che non amo./ Il sollievo con cui accetto/ che siano più vicini a un altro” o “Il cosmo è quel che è,/ ossia perfetto./ E i burloni non glielo perdoneranno mai” o “Non conosco la parte che recito./ So solo che è la mia, non mutabile” o “Anch’io non ho scelto,/ ma non mi lamento”. O anche: “Sono entrambi convinti/ che un sentimento improvviso li unì./ È bella una tale certezza/ ma l’incertezza è più bella”. Ma forse oggi ci dobbiamo lasciare con questi versi “Non c’è vita/ che almeno per un attimo/ non sia immortale./ La morte/ è sempre in ritardo di quell’attimo”. Anche se, per dirci un arrivederci che non suoni doloroso, non c’è nulla di meglio dell’apertura di Nulla due volte: “Nulla due volte accade/ né accadrà. Per tale ragione/ nasciamo senza esperienza,/ moriamo senza assuefazione”. E, senza assuefazione, ci lasciamo qui senza sapere o sapendo che ci sarà ancora un’altra neve a Roma. Che ci stupirà un seconda (non seconda) volta. www.paesesera.it/Societa/La-bianca-poesia-di-Villa-Borghese/(local)/127
la morte è un fiore che una sola volta/ fiorisce/ ma fiorisce come nient’altro fiorisce/ fiorisce appena lo vuole,/ non fiorisce nel tempo/ essa viene, una grande falena/ che adorna steli cedevoli/ tu lasciami esser uno stelo/ così forte che la rallegri
Nella introduzione agli scritti scelti di Nichiren Daishonin Daisaku Ikeda scrive: "nel contesto del dialogo interreligioso moderno è necessario quindi accettare e valorizzare le molteplici caratteristiche di ogni singolo credo e, allo stesso tempo, afferrare la profonda verità e sapienza presente nelle sue dottrine. Non vi è dubbio che, così facendo, ogni religione potrà esercitare un'influenza positiva sulle altre e diventare sempre più una religione dedicata alla felicità del genere umano".
Abbiamo visto e ci è piaciuto all'Auditorium il concerto con Leonidas Kavakos che suona il concerto per violino di Korngold. http://youtu.be/dLxDA7MRsUE
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È vero, come ha detto qualcuno, che in un mondo senza paradiso tutto è addio. Sia che tu saluti con la mano o no,
è addio, e se non ti salgono lacrime agli occhi è addio lo stesso, e se fingi di non accorgerti, odiando ciò che passa, è addio lo stesso.
Piazza Cavour à la Perec di Roberto Carvelli
“Ci sono molte cose a place Saint-Sulpice, ad esempio: il municipio, un ufficio del Ministero delle finanze, un commissariato, tre caffè di cui uno è anche rivendita di tabacchi, un cinema, una chiesa (…)”. Inizia così Tentativo di esaurimento di un luogo parigino di George Perec che la Voland (12€) manda in libreria in una edizione curatissima che si deve alla triplice competenza di Alberto Lecaldano: passione, organizzazione, traduzione. Sapientemente annotato e corredato da materiali grafico-fotografici, il libriccino di Perec trionfa nella sua geniale idea di letteratura geografico-situazionista. Per me che lo leggo in una fredda sera di febbraio, TELP – questo l’acronimo con cui lo scrittore francese sintetizza il suo progetto di racconto di un luogo – finisce per suggerirmi il medesimo esperimento in un topos romano conveniente all’adattamento. Lo trovo in piazza Cavour: per sottrazione. Anche qui un cinema, l’Adriano (che reca ancora la vecchia insegna di teatro), una chiesa, quella valdese, tabacchi e bar in un numero congruo. Se sostituiamo l’ufficialità con il palazzaccio e altri uffici siamo in un luogo equivalente. Il Palazzaccio, come chiamano i romani il Palazzo di Giustizia e che da questa piazza ammiriamo nelle sue pur belle spalle, è travertino sontuoso su disegno di Calderini. Viene da qui l’unico scroscio d’acqua della piazza a cui manca una fontana vera e propria avendo scelto il silenzio di una statua come baricentro. Quella “A Camillo Cavour Roma” come recita la didascalia: ed è una vera e propria dedica allo statista tutta trionfante di allegorie. Bisognerebbe raccontare al modo di Perec questo spazio il 14 febbraio 2012 – per gli amanti delle statistiche San Valentino – ore 19,20. Tentare come lui di esaurirlo in un’osservazione. Studiare questa ragazza con una busta di cartone targata Fendi (un regalo amoroso?), considerare il vai e vieni degli avvocati, fissare l’intellighenzia togata che come me sta bevendo un bicchiere (io un traminer) da Costantini (Il Simposio), una delle più antiche vinerie di Roma. In uno scenario di contenuta decadenza con fondali di viti in ferro battuto gettare uno sguardo, fuori dal vetro, a questo flusso complesso di auto (in questi giorni di una viabilità ancora più tortuosa vuoi per la rivisitazione del percorso vuoi per il rallentamento del ghiaccio). Poi riuscire e guardare la fila dei taxi che avanza a misure precise riempiendo il vuoto lasciato dal collega, silenziosamente come in una mossa di dama. La ragazza che passa con la borsa con il logo Gola, un’altra che dice “dopo undici anni ormai è come se fosse mio fratello”, quest’uomo che attende qualcuno davanti al cinema, altri che non si capisce se saliranno sull’autobus o vedranno un film. I numeri dei bus: 30, 70, 81, 87, 130, 186, 224, 280, 492, 913, 926, 6N, 7N. La somma fatela voi. Agenzia autonoma per la gestione dell’albo dei segretari comunali e provinciali e la Scuola superiore della pubblica amministrazione locale annunciano un palazzo di cancellate penitenziarie. La piazza sembra una giostra con due giri di macchine: uno interno e uno esterno. La libreria Claudiana dalla vetrina magnanima di consigli di lettura non troppo commerciali. La chiesa Valdese: chiusa ma con un cartello che rimanda a tre appuntamenti per la “Raccolta delle direttive anticipate di fine vita – Testamenti biologici. Lo sportello sarà aperto nei seguenti giorni…” Il culto, dice un altro cartello, è la domenica alle 10,45. Fa pensare – anche se c’è una ragione “protestante”, quella di un quartiere troppo vicino al Vaticano per non sentire l’urgenza di una contestazione – che l’unica chiesa (costruita tra il 1911 e il 1914 su disegno di Rutelli e Bonci) della piazza non sia cattolica e abbia questo aspetto così coloniale. Più in là un’altra libreria, Arion Prati, via Giovanni Pierluigi da Palestrina. Cornetto notte: si chiamerà ancora così uno dei rari notturni luogo di ritrovo anni Ottanta? I giardini della piazza sono pieni di bandoni che nascondono lavori. Guardando in alto, sopra il commissariato c’è una casa illuminata da una luce rossa. Pochi innamorati in giro, nonostante l’ufficialità della giornata, a parte due ragazzi che pattinano tenendosi per mano sul ghiaccio rimasto. Ed ecco il commissariato di Polizia con l’azzurro dell’insegna e una radio che da una macchina chiusa sparge informazioni nell’aria. L’Associazione mutilati e invalidi di guerra ha sede in un palazzo pentagonale su disegno di Piacentini del 1928 è appena là dietro. Continuando sul marciapiede un altro cartello: Ocular protesis srl. Faranno protesi agli occhi? Boh! Un centro per la formazione permanente dei diplomatici. “Voglio di’ almeno una mascherina” dice una ragazza passando. Un bar tabacchi. Un’edicola. La terza (o quarta?) banca che conto. Un taxi che passa clacsonando nervosamente. La vecchia insegna di un casalinghi che promette storini per finestre (che cosa sono?) e zerbini di cocco. Non c’è dubbio che le piazze circolari abbiano più fascino e, nel dirlo, penso al derby stracittadino dei pratolini: quelli che amano più piazza Mazzini e quelli che tifano per piazza Cavour (piazza Risorgimento mi sembra più luogo outsider e di passaggio a confine tra Vaticano e Prati). Piazza Cavour presenta tante vie di fuga. Dalle più larghe come via Cicerone e via Crescenzio fino alle complesse uscite verso il Castello Sant’Angelo di cui qui si dovrebbe dire “una volta qua era tutto prato” e farci così da soli l’etimologia di “Prati (di Castello)” come si chiamava una volta quest’area ora tutta uffici disposti in palazzoni. Se ne può venir fuori anche da via Marianna Dionigi, con più discrezione. Torno per un momento al libro di Perec, estraneandomi dal passaggio di donne e uomini curatissimi nel vestire, nelle acconciature: “In confronto a ieri cosa è cambiato? A prima vista, sembra tutto uguale. Forse il cielo è più nuvoloso? Sarebbe veramente un partito preso dire che ci sono, per esempio, meno persone e meno auto”. Mi domando se ripetessi questa osservazione anche io cosa cambierebbe. Si potrebbero definire delle leggi? Delle occorrenze? Forse anche voi dovreste provare a esaurire un vostro luogo romano. Scrivere da voi un vostro TELR (basta sostituire una lettera) salvo, con la dovuta umiltà, leggere l’originale come continuo a fare io.
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