Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Da Un fiore sconosciuto (il racconto omonimo) - Rizzoli, Mavis Gallant.
"In un noioso fine settimana, quando non vedeva Julius da giorni, scrisse: 'Il sole splende sui tetti e ricolma i cuori di gioia mentre io... Splende il sole ma io... Triste è il mio cuore anche se il sole ogni cuore ricolma...' ."
Ricito (credo di averlo già fatto qui) da Truffaut. Ma con una memoria più fresca.
Un giorno, in collegio, la mia professoressa spiegò la differenza fra il tatto e l'educazione. Un signore, in casa di amici, apre la porta di una stanza da bagno e scopre una donna nuda: si ritira subito, chiude al porta e dice "Oh, scusi Signora!" Questa è educazione. Lo stesso signore aprendo la stessa porta, scoprendo la stessa nuda, dice "Oh, scusi Signore". Questo è tatto.
Il film è Baci rubati. L'aneddoto è in una lettera che la signora Delphine scrive al giovane apprendista (sotto mentite spoglie) del negozio di scarpe del marito.
La frase è questa. Frase che mal cito in Amarsi a Roma e non so spiegarmi il motivo di questo errore. E' nel recitativo di questa esecuzione di BackDoorMan. Una mia fissazione giovanile. Ma mi piace ancora a risentirla.
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Ti dissi non me, non me persona. Ti dissi di non guardare a me come a una persona. Ti spiegai tutti i difetti che non vedevi (non li vedevi). Ti dissi che presto li avresti visti, ne avresti visti altri. Succederà, ti dissi, e allora? Che ci farai con la delusione? Come farai a separare quel che era buono, quel che era utile, quel che serviva dal resto? Dopo bisogna chiudere gli occhi non prima. Ma non è solo questo. Bisogna andare al di là della persona. Bene e male. Tutto siamo. Non solo bene. Pregavo la tua ingenuità di farsi da parte. Andavo contro me. Una specie di suicidio, è vero. Ma sapevo che sarebbe stato peggio morire del tuo risentimento.
L'orologio segna 2e38. Mi sono svegliato. Poi continua così. L'orologio continua a segnare ore e minuti e io non mi riaddormento più. Un po' di lenzuola e poi scendo di sotto. Fuori piove a secchiate. Google (il gatto) non è da nessuna parte (tornerà verso le 6 asciutto). Abbiamo accordi chiari: non ci controlliamo, nessuna gelosia, nulla. Ognuno sta solo sul cuor della terra ma lui caccia topi e io gli faccio avere i croccantini. Il campanello forse a contatto con un rivolo d'acqua, suona fisso ma piano. Mi scambio due messaggi con un'amica (come ha fatto a sapere che ero sveglio?) che ha il cane agitato per la pioggia e i tuoni. Ore 3e40. Mi faccio una bella colazione (pane buono, formaggi, uva, caffè). Mi porto il PC in cucina e inizio a scrivere. Scrivo una lettera. Scrivo al Principio di Realtà. Così.
Lettera al Principio di Realtà
Caro Principio di Realtà
ti scrivo come si scrive a un giornale. Insomma: mi aspetto una risposta. Sono partito male? Equivoco? Delle due l’una: o la realtà di cui ti fregi (perdonami se sono partito con la seconda persona ma ho pensato che se dobbiamo diventare amici è meglio non perdere tempo) è evanescente (ahiaiaiai!) e cede alla magia oppure... Oppure millanti e questo è più grave. Scusa se inizio bacchettandoti.
Mi chiamo Roberto. Il cognome non è importante. Sono le 4 e c’è più di una cosa di cui vorrei discutere con te. Iniziando dal tuo essere sempre in mezzo, sempre presente ma sempre – ripeto “sempre” – un passo indietro rispetto alle cose. Perdonami ma non mi piaci affatto. A pelle, dico. Mi sembri uno di quei bambini saputelli pronti con la mano alzata a suffragare gli errori dei compagni appena un momento dopo l’illusione del silenzio che ha provocato in quelli la certezza di una giusta risposta o del “tanto non la sa nessuno”. Converrai che non è un modo onesto di comportarsi. Mi confermi che la risposta la sapevi da subito (è quello che tutti sospettiamo quando abbiamo a che fare con te)? E allora? Perché ci hai fatto provare a dire le nostre stupidaggini? Perché ci hai costretti a provare una soluzione? Dài ammettilo non susciti simpatia a prima vista. Sù non è la tua dote migliore la concordia. E dunque: perché dovremmo tenerti in massimo conto? Perché farti strada, lasciarti la porta aperta o, peggio, darti il passo? Scusa il risentimento ma sono pure le 4, la mente non è lucida (pur non sembrando desiderare le coltri del sonno) e tu, come tuo solito, fai capolino ogni tanto per ricordarci, solito stronzo saputello (scusa se mi lascio andare alla stizza), i nostri miseri errori. Beh, sarò selettivo, ma io gli amici me li scelgo diversamente. Dunque mi devo rassegnare ad averti al fianco come un pungolo indisponente e asettico? E’ già così. Se mi sono deciso a scriverti – ora la sveglia segna le 4e25 – è perché voglio tentare un ultimo disperato tentativo di conciliazione. Non startene lì in silenzio. Non aspettare la domanda, la mia scena muta, la mia risposta sbagliata. Incalzami, precedimi. Metti davanti la tua lapalissiana verità e lasciala qua davanti ai miei occhi. Forse non basterà a farci diventare amici ma certo ci aiuterà da qui al futuro a non guardarci storto. Ma che ingenuo sono a parlarti così. Dovrei immaginarlo che non rientra nel tuo fintamente distratto procederci al fianco, non è nel tuo stile no... Sono vittima dei pregiudizi, dirai. Va bene, lo sono. Ma tu – scusa la franchezza – hai davvero passato il limite. Da ora in poi stammi un po’ alla larga e non sempre lì pronto ad alzare la mano, ad aspettare scivoloni, a sottolineare mancanze. O almeno, per favore, facciamo una pausa: tu te ne stai dove devi stare e io pure. Se ti sembra che sbaglio qualcosa tienitelo per te. Se avrai ragione, se avrai indovinato la tua banale concretizzazione delle cose, nessuno te ne toglierà il merito e non ci sarà neppure bisogno di ribadirlo. Così fino ad allora facciamo a meno l’uno dell’altro.
Cordialità
Roberto
Ieri sera ho visto e mi è piaciuto Persecution di Patrice Chereau (film presentato a Venezia). In realtà è stato un incontro fortuito e perciò fortunato. Dovevo andare a vedere Lebanon (che Venezia ha vinto) o Videocracy con amici. Ma avevo scelto Lebanon alla fine. La sala era stracolma e al completo così di corsa ad una sala vicina. Un attore in stato di grazia (Romain Duris), un regista che si cimenta (continua a farlo) con l'intimità amorosa (quindi viaggia al fianco degli attori, gli sta addosso...cose che ad altri fautori di un cinema di azione possono risultare irrritanti) per un film che viaggia sul filo della malattia (amorosa). Daniel perseguita Sonia ed è perseguitato da un malato di mente invaghitosi di lui. Lo scambio sano/malato è terapeutico. Come al solito la domanda: chi è sano, davvero? Sonia ama Daniel nel modo in cui bisognerebbe amare ma è riamata nel modo sbagliato. Di un'intensità disperata e bisognosa. Generoso è Daniel: a guardare gli altri, a seguire gli amici, persino a cercare di salvare passanti. Generoso è perché vuole amare Sonia. Eppure dà chiedendo? Un disperato bisogno di salvezza pronunciato in forma di offerta. bella è la sceneggiatura, la direzione degli attori, tutto. Sono tornato a casa e ho dormito meravigliosamente dopo aver abbozzato un racconto (non sto scrivendo in questo periodo e tutto quello che mi arriva lo chiamo Brandello di stoffa per un vestito che forse non indosserò). Come un brandello, dunque. Questo:
Come inizia il bene
Un senso indefinito di benessere. Un vuoto in cui stiamo bene. Come la chiamiamo questa sensazione che ci pervade oggi, il giorno in cui ci siamo lasciati indefinitamente (perché non ho scritto definitivamente?)? Forse dovremmo festeggiare o forse no. Forse non siamo così certi che questa sia l’ultima volta in cui diciamo basta a una cosa a cui diciamo basta dal primo momento. La prima volta in cui ci siamo visti è stata quasi la prima volta in cui ci siamo amati. Il giorno dopo il cielo era nuvoloso e noi meditavamo la fine, studiavamo un piano di fuga. O ne eravamo studiati? Non è mai ben chiara la sensazione di qualcosa che non va, che non ci convince a fondo. A volte sembra l’idea di un non poter fare diversamente – quindi una scelta; quindi una decisione o una sensazione (a seconda di che valore diamo al percepire piuttosto che al volere) – altre volte l’idea di dover fare tutto il possibile perché le cose non cambino. Il nostro dolore che sia il nostro dolore; come abbiamo sempre pensato non venga messo in discussione da un incontro per quanto bello.
La prima volta che siamo stati insieme tu avevi le gambe un po’ rigide e il respiro strozzato, corto. Io ti dicevo “non aver paura” e tu smettevi di averla. Di chi ti fidavi? Di uno che non conoscevi, uno che forse poteva farti del male, uno che forse non era la scelta giusta. Inizia anche così il bene: ingenuamente. E senza pensarci. Il respiro strozzato, le gambe trattenute e uno che ti dice “non ti preoccupare”. E tu, che smetti di preoccuparti. Inizia così. Dopo – non hai la forza di guardarmi negli occhi – fissi un punto impreciso del mio petto e ti addormenti. Inizia così. La gonna lunga a fiori, la maglia viola, roba sparpagliata e sonno. Hai deciso di fidarti. Di un letto a terra, di uno di cui a malapena sai la data di nascita ma non hai neppure avuto il tempo di chiedere alla tua amica "magica" che buona o pessima combinazione astrale vi avvicinerà o vi allontanerà. Venerdì e poi sabato. Giorni buoni per non sapere. Venerdì e poi sabato: un giorno ancora per capire. Cosa è giusto, cosa sbagliato? I segni li vedrai domenica o lunedì direttamente, dando uno sfiato a questa prima indecifrabile notte in cui ti addormenti fissando un petto che mai hai visto. Un petto diverso da ogni altro petto, di un respiro mai udito, di un corpo che fa un ideogramma strano su un materasso a terra di una casa che non conosci. Inizia così. E non sai come finisce ma pensi che è presto per chiederselo. Aspetti domenica.
Ieri sera dopo aver visto Videocracy - un interessante e perciò raccomandabile documentario da cui però forse mi aspettavo qualcosa in più - ho letto uno dei racconti dei 49 di Hemingway per la precisione quello di cui nell'introduzione lo scrittore americano dice essere uno di quelli mai a nessuno piaciuto ma fra i suoi (dello scrittore) preferiti (interessante spunto di riflessione quello dei gusti personali veros la propria opera di chi ne è coinvolto ancor prima come autore). Il racconto, LE LUCI DEL MONDO, è in definitiva un lungo dialogo tra bar e prostitute di due giovanotti (si potrà dire ancora?). E' dunque un racconto di chiacchiere alcoliche che si chiude nella stessa transumanza sbevazzante con cui si è aperto. Due prostitute non si riescono a mettere d'accordo su chi abbia davvero amato un uomo che ora non c'è più. La verità del loro amore è non differibile, non condivisibile, personale. Come i gusti.
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