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Una verità diversa dei numeri
Il Bar Libano è il bar in cui sono cresciuto. Non si chiamava così. L’insegna era bar e basta. Tre lettere in un carattere molto simile a quello che, nella selezione di word, è individuato come Playbill. BAR. Siamo noi che lo abbiamo ribattezzato Bar Libano. Al limite baretto, un diminutivo che gli stava bene per la metratura ma anche per le poche pretese di cui si ammantava. Ci piaceva che fosse sporco quel giusto, piccolo quel giusto. Che non avesse orari troppo definiti a parte la domenica chiusa. Ci piaceva che fosse aperto finché non avevi finito. Di bere, di mangiare, di aspettare un amico che sarebbe passato a prenderti e a portarti da qualche parte. In centro o a casa di amici. Presto ma non sapevi quanto. Comunque sarebbe passato. Ci piaceva che non avesse ceduto alla lista dei primi precotti da mettere “un minutino” nel microonde dandoti l’illusione del ristorante. Macché: Il Libanese (che era originario di Serra San Bruno e, quindi, a rigore, dovremmo dire Il Calabrese) continuava a preferire la selezione un po’ ottusa e pianoquinquennale di quei tramezzini semplici: tonno e pomodoro, salame e formaggio, uova e carciofini. Se qualcuno, dopo, aveva pensato di variare le combinazioni, a Carlo – ecco il nome del libano-calabrese – era passato inosservato. Forse, uno stimolo inesaudito alla sofisticazione.
Non è stato chiaro l’atto conclusivo del Bar Libano. Un giorno un cartello con pessima grafia, LUTTO (poi ci ha confessato che non gli era morto nessuno ma senza aggiungere altro). Dopo una quindicina di giorni uno, altrettanto improbabile, INVENTARIO (c’era poco da inventarsi, a ben vedere). Un altro, DISINFESTAZIONE, ci aveva messo, un mese dopo, sull’avviso di un pericolo incombente. Nel bar, blatte e topi avevano sempre viaggiato con il loro permesso di cittadinanza – e non c’è, d’altronde, esercizio commerciale a Roma che possa fingere di non conoscere le regole riproduttive di questi due animali – e non avevamo creduto all’idea che il Libanese avesse stabilito di porre un veto bellico a questi invasori inesorabili. Avevamo capito solo allora che la faccia sempre più pensierosa di Carlo davanti ai vecchi quaderni a quadretti tutti scritti e riscritti e i grossi tabulati che li avevano sostituiti, non era solo quella di uno a cui avessero chiesto di rimettersi a studiare le funzioni algebriche in un’era di analfabetismo di ritorno. Il Libanese cercava la classica via di fuga, una via numerica di resistenza alla chiusura, una formula, un coefficiente, una verità diversa dei numeri. Ma invano. Ogni tanto, quando ci ripasso davanti per andare a trovare i miei, mi immagino ancora il locale dietro quella saracinesca chiusa. Impolverato, lasciato a un carosello di blatte e topi, il bancone, i tavolini, silenzio. Le tante cose giuste o sbagliate che là dietro sono successe e che mai più succederanno. L’idea che ci sono delle scelte che si fanno per noi. Senza piacere nostro.
(Roberto Carvelli)
http://narratingcrisis.org/2011/03/una-verita-diversa-dei-numeri-roberto-carvelli/
Adesso che il tempo sembra tutto mio e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena, adesso che posso rimanere a guardare come si scioglie una nuvola e come si scolora, come cammina un gatto per il tetto nel lusso immenso di una esplorazione, adesso che ogni giorno mi aspetta la sconfinata lunghezza di una notte dove non c’è richiamo e non c’è più ragione di spogliarsi in fretta per riposare dentro l’accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta, adesso che il mattino non ha mai principio e silenzioso mi lascia ai miei progetti a tutte le cadenze della voce, adesso vorrei improvvisamente la prigione.
La letteratura che mi piace è un corpo a corpo con se stessi. La letteratura che amo è quella dove, senza farsi sconti se possibile, si ingaggia una lotta con i propri mostri (il successo è ovvio è dato da quanto i propri mostri siano o divengano, grazie alle proprie arti, intellegibili agli altri), i demoni, le paure. Lorenzo Pavolini - che leggo ahimé in ritardo - ha davvero composto l'opera della sua vita. Ha scelto il suo campo di disfida: quello più urgente (urgente ma forse dolorosamente o silenziosamente rimosso) e ingombrante. La figura del nonno. E senza farsi sconti. E senza farli a lui. Alessandro e Lorenzo: mai conosciuti, mai presentati eppure l'uno almeno all'altro presente. Presenze: questa sì una parola che vale molto, che pesa molto come un'azione sicura - magari con pochi rialzi ma stabile. Presenze: anche quelle che non vediamo (e perciò crediamo di poter esorcizzare nella distanza). Presenze che affianchiamo o ci affiancano. Accanto alla tigre (che è poi il titolo del libro, Editore Fandango), diventa la metafora di questo andare a lato del proprio destino, quello dell'autore, quello dell'imponente avo, quello di lui con se stesso. A fianco ma con la tentazione di un balzo, sulla sua soma nel tentativo di cavalcarla.
Ps Ahimé (secondo ahimé della giornata) il libro lo ricorderò per l'insonnia dentro cui è proseguito. Come se la tigre, la mia trigre di oggi fosse questo poco sonno o quello per cui questo poco sonno sta. E che io non so.
Di Carvelli (del 31/03/2011 @ 08:58:06, in diario, linkato 1007 volte)
Te
Te lasciarti essere te tutta intera Vedere che tu sei tu solo se sei tutto ciò che sei la tenerezza e la furia quel che vuole sottrarsi e quel che vuole aderire Chi ama solo una metà non ti ama a metà ma per nulla ti vuole ritagliare a misura amputare mutilare Lasciarti essere te è difficile o facile? Non dipende da quanta intenzione e saggezza ma da quanto amore e quanta aperta nostalgia di tutto- di tutto quel che tu sei Del calore e del freddo della bontà e della protervia della tua volontà e irritazione di ogni tuo gesto della tua ritrosia incostanza costanza Allora questo lasciarti essere te non è forse così difficile
Erich Fried
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