Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Ho visto sabato scorso Inferno/Purgatorio/Paradiso della Raffaello Sanzio Societas. E mi è piaciuto. Specie Inferno di cui questo video è una brevissima sintesi.
">.Più angosciante e meno visionario Purgatorio ma, mi verrebbe da dire, nel rispetto del testo. Dove sei tu? Io ti amo. Io ti imploro. In tre invocazioni la sintesi della condizione umana tra ricerca e smarrimento, bisogno di salvezza prima che di redenzione.
Di Carvelli (del 13/10/2010 @ 13:43:27, in diario, linkato 1160 volte)
Cito e linko intervista di Davide Musso a Franco Stelzer sul cui ultimo bel libro - Matematici nel sole - già ebbi modo di esprimermi tempo fa nel mio sito.
Matematici nel sole - l'ultima fatica di Franco Stelzer che per un pelo non è diventato “Libro dell'anno” di Fahrenheit su Radio3 - è un romanzo poetico e delicato sul matrimonio. D'accordo, lo spunto che muove la storia è la scoperta da parte di Hus, il protagonista, di avere un male incurabile: da lì la decisione di pianificare la cerimonia funebre e il “dopo”, dalla suddivisione del patrimonio tra i figli alla ricerca del nuovo partner per la moglie. Ma la morte resta sullo sfondo, mentre le pagine raccontano la storia d'amore (luminosa, anche se non priva di momenti bui) di una coppia lungo il corso di una vita. Tra l'altro, con questo libro Stelzer è passato da Einaudi (con cui ha pubblicato i due titoli precedenti) alle Edizioni Il Maestrale. Ecco perché.
In un'occasione pubblica ho sentito presentare il suo libro come un libro sulla malattia, mentre lei ha precisato che si tratta piuttosto di un libro sul matrimonio, e in effetti il senso di morte nel libro non c'è, e la malattia di Hus resta per gran parte del tempo sullo sfondo. Come mai quindi ha scelto questo spunto narrativo (il male incurabile del protagonista) per scrivere un romanzo su una storia di coppia? Ho effettivamente cominciato a scrivere il libro pensando a cercare di rendere sulla pagina quel laborioso, tenace, intelligente lavorio di mediazione, comprensione, critica, auto-critica, ridefinizione ecc... in cui consiste la vita di una coppia. Mi affascina questo modo caracollante eppure efficace di procedere che è insito nella convivenza. Quel lavoro di continuo aggiustamento che, nelle coppie che funzionano, agisce in un certo senso su di una misura di tempo infinito, ha in sé l'elemento chiave dell'infinita perfettibilità, a tutti i livelli. Poi mi è venuto in mente di introdurre la malattia e la possibile morte - per vedere se il sistema continuava a funzionare. Nel caso dei due protagonisti, mi sembra che l'inevitabile accelerazione indotta dall'idea stessa di una possibile fine imminente non abbia comunque scardinato il meccanismo dell'approssimazione positiva. Tra l'altro, quest'ultimo aspetto - un'approssimazione che non si considera un semplice male minore, ma un continuo processo di levigazione dell'essere - ha qualcosa di molto letterario...
Il matrimonio che lei racconta è a suo modo saldo, nonostante abbia conosciuto tempi bui. Com'è possibile condividere una vita intera con la stessa persona, a suo avviso? Non so se sia possibile che questo avvenga in modo veramente soddisfacente - comunque sicuramente non sempre. Certo, una via è proprio quella di una sorta di nobilitazione della normalità. I due protagonisti si salvano continuamente ritualizzando con delicatezza e rispetto il loro quotidiano. La vera morte - sembrano a volte poter dire - non è quella fisica, che inevitabilmente ci travolgerà, ma lo scordarsi della sacralità pura e luminosa dei riti quotidiani, la perdita del senso delle cose più semplici.
Hus è un pianificatore, vuole sempre avere la situazione sotto controllo: non si preoccupa solo di quanto riguarda direttamente la propria morte (la cerimonia d'addio, la suddivisione dei beni), ma anche del "dopo" delle persone che ama e in particolare della moglie, per la quale vorrebbe trovare fin da subito un partner sostitutivo. Perché? Hus vuole, mi pare, soprattutto esorcizzare. Ma poi, sembra scoprire nella definizione minuziosa (addirittura numerica!) dei particolari anche più intimi del dopo, una sorta di estetica bizzarra e paradossale. Anche questa assume i tratti del rito, anche se proiettato su un tempo che non esiste ancora.
A questo punto devo chiederle di spiegarmi i nomi, piuttosto insoliti, dei due personaggi principali Hus e Wif, marito e moglie, e dei loro figli, Soh e Toch. Quelle specie di sigle sono una sorta di nomi/non nomi. Provo sempre un certo fastidio nel dare ai personaggi una veste anagrafica troppo precisa e concreta. E allora mi sono scelto nomi tronchi e per di più derivanti da codici linguistici diversi dal mio (Hus sta per Husband, Wif per Wife; Soh per Sohn, figlio in tedesco, Toch per Tochter, figlia, e così via). Così troncati assumono una sonorità quasi astratta. Potrebbero sembrare in un certo senso nomi di animaletti, o di gnomi, comunque dotati di un che di piccola universalità. So che a qualcuno la cosa ha dato fastidio. Peccato.
Ad un certo punto del libro scrive che "le storie cacciano il male" e il romanzo è innervato di altri racconti oltre a quello principale. Perché questa necessità dell'uomo di raccontare e raccontarsi? Il fatto che il racconto principale sia continuamente interrotto da storie parallele ha a che vedere con il mio rapporto con la frammentarietà, nei confronti della quale provo un'attrazione irresistibile. Non so reggere alla tentazione di spezzare, frantumare, creare continuamente nuove aperture. Di fatto poi mi accorgo che, senza che ci abbia pensato più di tanto, le storie secondarie hanno molto più a che vedere con quella principale, di quanto io stesso non avessi pensato, spesso in un modo oscuro, ma che può illuminare. Mi pare accada la stessa cosa anche nella normale vita di noi tutti. Siamo continuamente attraversati da un fascio inesauribile di sensazioni, pensieri ecc..., che continuano a entrare in rapporto. Quando riusciamo ad isolare uno degli elementi di questo fascio e lo trasformiamo in storia, la nostra normalità si illumina e guadagna un senso complessivo che prima forse ci era sfuggito. E in un certo senso diveniamo spettatori della nostra stessa vita.
Visto che comunque la fine è uno dei temi del libro, mi piacerebbe chiederle qual è il suo rapporto conla morte. Buono direi, abbastanza simile a quello di Hus. Ma attenzione, lo dico da sano...
Matematici nel sole è il suo terzo libro pubblicato in nove anni: che tipo di scrittore è Franco Stelzer? Come e da quale esigenza nascono le sue storie? Quando e dove scrive, e con che metodo? La mia scrittura nasce quasi esclusivamente da un'urgenza di natura autobiografica. Sento il bisogno di raccontare - trasfigurandolo - quello che mi succede. Anche per questo sono uno scrittore estremamente irregolare. Scrivo poco, in luoghi anche diversi - anche se per lo più a casa. E al computer. In genere non faccio scalette o roba simile - lavoro soprattutto su frasi e suoni - a meno che l'urgenza di una consegna non mi costringa a stringere i tempi.
Negli ultimi anni sono diversi gli autori che hanno cambiato editore, passando da una sigla più grande a una più piccola. Questo romanzo ha segnato il suo passaggio da Einaudi e Il Maestrale: com'è accaduto? E quale bilancio può trarne? Sono passato al Maestrale (su preziosa indicazione della mia traduttrice francese) perché Einaudi mi stava facendo aspettare troppo. Avevo una promessa di pubblicazione che mi assicurava l'uscita del libro minimo un anno e mezzo dopo il momento in cui è effettivamente stato pubblicato. Non avevo più la forza di aspettare. Volevo assolutamente liberarmene. Il bilancio è estremamente positivo per quando riguarda editing, rapporto con la casa editrice ecc... Molto meno per quanto riguarda il "peso" dell'ufficio stampa e la presenza del libro sugli scaffali. La forza della grande casa editrice si fa, in questo caso, sentire moltissimo.
Infine: sta lavorando a qualcosa di nuovo? Sì, ma in modo frammentario. Troppi impegni di altro genere. Troppi pensieri. Aspetto un momento più calmo.
Trovo, ancora nel libro di Susanna Basso - Sul tradurre, una frase che mi intriga. E' da Hilary Mantel di cui ignoro tutto. La frase in inglese suona così: But this story can be told only once, and I need to get it right. La Basso la traduce così: Ma questa storia può essere raccontata una volta sola, e ho bisogno che sia la volta buona. Mi sembra che renda perfettamente l'idea che va cercata, o che io cerco, meglio, nella e della lettura nella e della scrittura. Only once - Get it right.
Fosse stato lunedì tu avresti avuto la faccia di chi non ha dormito. Una faccia felice, quella che avevi a tredici anni dopo una partita di pallone, una cena con la fettina panata e le patate fritte tagliate grosse. Un nodo alla gola fatto di stanchezza, la televisione accesa e dopo non ricordi più. Quello che non ricordi è la mano che ti alza e ti guida verso il letto. Una mano che non c'è più. Né di lunedì mattina né di domenica sera. Né mai.
Di Carvelli (del 11/10/2010 @ 15:43:00, in diario, linkato 14425 volte)
Gabriella risponde all'appello inviandoci Last Letter nella sua versione completa. Grazie
“Last Letter” by Ted Hughes
What happened that night? Your final night. Double, treble exposure Over everything. Late afternoon, Friday, My last sight of you alive. Burning your letter to me, in the ashtray, With that strange smile. Had I bungled your plan? Had it surprised me sooner than you purposed? Had I rushed it back to you too promptly? One hour later—-you would have been gone Where I could not have traced you. I would have turned from your locked red door That nobody would open Still holding your letter, A thunderbolt that could not earth itself. That would have been electric shock treatment For me. Repeated over and over, all weekend, As often as I read it, or thought of it. That would have remade my brains, and my life. The treatment that you planned needed some time. I cannot imagine How I would have got through that weekend. I cannot imagine. Had you plotted it all?
Your note reached me too soon—-that same day, Friday afternoon, posted in the morning. The prevalent devils expedited it. That was one more straw of ill-luck Drawn against you by the Post-Office And added to your load. I moved fast, Through the snow-blue, February,
London twilight. Wept with relief when you opened the door. A huddle of riddles in solution. Precocious tears That failed to interpret to me, failed to divulge Their real import. But what did you say Over the smoking shards of that letter So carefully annihilated, so calmly, That let me release you, and leave you To blow its ashes off your plan—-off the ashtray Against which you would lean for me to read The Doctor’s phone-number. My escape Had become such a hunted thing Sleepless, hopeless, all its dreams exhausted, Only wanting to be recaptured, only Wanting to drop, out of its vacuum. Two days of dangling nothing. Two days gratis. Two days in no calendar, but stolen From no world, Beyond actuality, feeling, or name.
My love-life grabbed it. My numbed love-life With its two mad needles, Embroidering their rose, piercing and tugging At their tapestry, their bloody tattoo Somewhere behind my navel, Treading that morass of emblazon, Two mad needles, criss-crossing their stitches, Selecting among my nerves For their colours, refashioning me Inside my own skin, each refashioning the other With their self-caricatures,
Their obsessed in and out. Two women Each with her needle.
That night My dellarobbia Susan. I moved With the circumspection Of a flame in a fuse. My whole fury Was an abandoned effort to blow up The old globe where shadows bent over My telltale track of ashes. I raced From and from, face backwards, a film reversed, Towards what? We went to
Rugby St
Where you and I began. Why did we go there? Of all places Why did we go there? Perversity In the artistry of our fate Adjusted its refinements for you, for me And for Susan. Solitaire Played by the Minotaur of that maze Even included Helen, in the ground-floor flat. You had noted her—-a girl for a story. You never met her. Few ever met her, Except across the ears and raving mask Of her Alsatian. You had not even glimpsed her. You had only recoiled When her demented animal crashed its weight Against her door, as we slipped through the hallway; And heard it choking on infinite German hatred.
That Sunday night she eased her door open Its few permitted inches. Susan greeted the black eyes, the unhappy Overweight, lovely face, that peeped out Across the little chain. The door closed. We heard her consoling her jailor Inside her cell, its kennel, where, days later, She gassed her ferocious kupo, and herself.
Susan and I spent that night In our wedding bed. I had not seen it Since we lay there on our wedding day. I did not take her back to my own bed. It had occurred to me, your weekend over, You might appear—-a surprise visitation. Did you appear, to tap at my dark window? So I stayed with Susan, hiding from you, In our own wedding bed—-the same from which Within three years she would be taken to die In that same hospital where, within twelve hours, I would find you dead. Monday morning I drove her to work, in the City, Then parked my van North of
Euston Road
And returned to where my telephone waited.
What happened that night, inside your hours, Is as unknown as if it never happened. What accumulation of your whole life, Like effort unconscious, like birth Pushing through the membrane of each slow second Into the next, happened Only as if it could not happen, As if it was not happening. How often Did the phone ring there in my empty room, You hearing the ring in your receiver—- At both ends the fading memory Of a telephone ringing, in a brain As if already dead. I count How often you walked to the phone-booth At the bottom of
St George’s terrace. You are there whenever I look, just turning Out of Fitzroy Road, crossing over Between the heaped up banks of dirty sugar. In your long black coat, With your plait coiled up at the back of your hair You walk unable to move, or wake, and are Already nobody walking Walking by the railings under Primrose Hill Towards the phone booth that can never be reached. Before midnight. After midnight. Again. Again. Again. And, near dawn, again.
At what position of the hands on my watch-face Did your last attempt, Already deeply past My being able to hear it, shake the pillow Of that empty bed? A last time Lightly touch at my books, and my papers? By the time I got there my phone was asleep. The pillow innocent. My room slept, Already filled with the snowlit morning light. I lit my fire. I had got out my papers. And I had started to write when the telephone Jerked awake, in a jabbering alarm, Remembering everything. It recovered in my hand. Then a voice like a selected weapon Or a measured injection, Coolly delivered its four words Deep into my ear: ‘Your wife is dead.’
http://lovingsylvia.tumblr.com
Di Carvelli (del 11/10/2010 @ 09:08:04, in diario, linkato 1086 volte)
Sto leggendo un libro molto bello della brava traduttrice Susanna Basso, Sul tradurre. Esperienze e divagazioni militanti (Bruno Mondadori). Grazie al prestito di un amico di ottime letture. All'improvviso mi imbatto in questa citazione e ne rimango folgorato.
Lìtost è una parola intraducibile in altre lingue. La sua prima sillaba, che si pronuncia lunga e accentata, suona come il lamento di una cane abbandonato. Per il significato di questa parola cerco invano un equivalente in altre lingue, sebbene io non riesca a immaginare come senza di esso si possa comprendere l'animo umano. Farò un esempio: lo studente faceva il bagno con una sua amica studentessa nel fiume. La ragazza era sportiva, mentre lui nuotava malissimo. Non sapeva respirare sott'acqua, nuotava adagio, con la testa spasmodicamente eretta sulla superficie. La ragazza era follemente innamorata di lui ed era così piena di tatto che nuotava con il suo stesso ritmo. Ma quando il bagno stava ormai per finire, volle dare per un attimo libero corso al suo istinto sportivo e si diresse con rapide bracciate verso la riva opposta. Lo studente si sforzò di nuotare, ma inghiottì acqua. Si sentiva umiliato, smascherato nella sua inferiorità fisica e provò lìtost.
Il brano è di Kundera e proviene da Il libro del riso e dell'oblio. Il motivo per cui la Basso lo cita è in quella parolina intraducibile. Invidia, un tipo di invidia. Un tipo intraducibile di invidia. E quello che mi è piaciuto è il tipo intraducibile di sentimenti che ci attraversano davanti alle cose e solo un po', solo certe volte alcuni scrittori (e alcuni traduttori) sanno restituirci. In questa scena ho sentito la pelle d'oca delle cose belle ma incongrue. Cose che sai e che non sai dire a parole. Cose che sai. Brividi che hai. Hai provato. Una volta. Nella vita.
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