Io mi ricordo Roberta in una cena nella sua casa del Centro, vicino Piazza dell'Orologio, casa con un grande terrazzo che doveva lasciare. Una casa che mi ricordo due volte. Due cene. Casa che forse sdoppio. Poi mi ricordo Roberta al telefono con la sua voce cavernosa da fumatrice incallita che mi chiedeva con discrezione un dato che le mancava "Scusa se te lo chiedo ma tu sei omosessuale?". E le sembrava strano che non lo fossi. Che fossi "così" senza esserlo. Ma mi conosceva poco. Dopo ci sentimmo diverse volte per il mio libro sulla pornografia. Lo recensì, mi intervistò, lo usò e mise in bibliografia nel suo rapporto Eurispes sulla pornografia. Rapporto che durò per sua meticolosità più del preventivato. Poi fui io ad intervistarla. Poi un giorno la incontrai per strada su via di Torre Argentina e tagliò corto "vado di fretta". Pur gentile così disse e s'incamminò lentissima. Purtroppo è questa l'ultima immagine che ho. E questo penso spesso della morte: una strada che ci chiama di fretta e verso cui andiamo, se possiamo, lentissimi.
«NON HO PIU' VOGLIA di reggere ai loro assalti. Preferisco comporre la mia morte». C'è qualcosa che inquieta e affascina nel commiato di Roberta Tatafiore, un lucido e appassionato diario che accompagna la scelta del suicidio. Ed è la normalità del suo gesto, non più pulsione estrema ma atto meditato, non scatto dissennato e violento ma scelta necessaria, una possibilità di vita che non ammette lacrime né intonazioni funebri, e nella sua naturalezza assai più conturbante della lacerazione prodotta dalla follia. Un corpo a corpo con la morte condotto per tre mesi attraverso una scrittura sorvegliata e nitida, quasi a voler difendere in tutti i modi - anche esteticamente - la dignità del congedo, spogliato di quel carico di risentimento che ogni suicidio porta con sé.
Protagonista del primo femminismo e saggista curiosa dei territori marginali - specie il mercato del sesso e la prostituzione -, Roberta Tatafiore s'è suicidata l'8 aprile dello scorso anno. Ha salutato la sua casa romana dietro piazza Vittorio, imbucato le lettere per cinque amici, un breve passaggio dal parrucchiere - guai morire in disordine - e prenotato una stanza al "Novecento", un grazioso alberghetto di tre stelle all'Esquilino. La cameriera l'ha trovata agonizzante, sul comodino le Operette Morali di Leopardi e un cocktail micidiale di farmaci.
Roberta aveva "composto" la sua morte con la stessa cura con cui preparava i suoi articoli: le missive "a orologeria", i regali postumi scelti con amore, la casa lasciata integra, senza ombre cupe di morte, confinate in un'anonima stanza di pensione. E poi questo straordinario journal del naufragio, documento unico nel suo genere, centoventi pagine che meticolosamente scandiscono la preparazione del gesto conclusivo, dal primo gennaio al 31 marzo del 2009. Il titolo scelto dagli amici è La parole fine, quasi a rimarcare la centralità della narrazione, tramite ultimo e necessario (Rizzoli, pagg. 150, euro 17, in libreria da mercoledì 7 aprile). «Poco prima di Natale», annota Roberta, «mi rendo conto che la morte è pronta, la scrittura mi trattiene». Le parole sono le uniche depositarie di senso. Ed è solo ad esse che si può affidare «la storia dopo la vita».
Quella che si svolge in Comporre la mia morte - così il titolo originario scelto dalla Tatafiore per il suo manoscritto - è una dolente «familiarizzazione con il suicidio», che comincia dalle donne capaci di «trasfigurare in poesia il gesto ultimo», Sylvia Plath ed Anne Sexton, Marina Cvetaeva ed Amelia Rosselli. La letteratura diviene l'ancoraggio in «quell'ondeggiare tra l'esistere e il dissolversi» che è la preparazione alla morte per propria mano. Di citazioni letterarie è ricco questo diario - da Pierre Bezukhov al principe Bolkonskij, dall'Adriano della Yourcenar al dostoevskiano Kirillov dei Demoni, da Levé a Camus -, suicidi fittizi e suicidi reali si rincorrono nelle pagine, ma non c'è compiacimento estetizzante, talvolta affiora anche un filo d'ironia per lo stile "casalingo" scelto da Plath o per i bei tempi andati in cui si poteva scegliere all'ultimo momento la stanza in cui morire - al modo di Pavese - senza dover prenotarla per tempo a causa del turismo di massa. Come se l'autrice fosse ben consapevole dell'inganno di quel gesto estremo, l'esibizionismo e l'ipertrofia dell'ego, e voglia ripararsene scavando nella verità dell'atto, fino a trovare quiete nelle parole di uno psichiatra, Giorgio Antonucci: «La scelta del suicidio non è pura e semplice volontà di morire. Ci si può uccidere per eccesso di voglia di vivere», quando le forze ti abbandonano. Quando non ti permettono più di "esercitare la virtù", scrive Roberta richiamandosi a Seneca.
Quali fossero i fili spezzati della sua "turbinosa" esistenza - come la definisce Daniele Scalise nella meditata introduzione - emerge dalla storia famigliare, ferite mai curate che scaturiscono da un rapporto irrisolto con la mamma «intellettuale mancata» e da una relazione ancora più complicata con la figura paterna, rispettata ma mai amata. «Nata sotto le bombe, succhio nel latte materno lo sconquasso tardo e postbellico che investe la famiglia».
Figlia della microborghesia foggiana, classe 1943, Roberta è resa fragile dalle fortune alterne del padre Guido, ingiustamente epurato dopo il fascismo, e dall'emancipazione incompiuta della madre, fino a quell'epilogo insensato che conferisce alla famiglia un destino di tragedia: l'uccisione del genitore - finalmente reintegrato a Roma - per mano di un pazzo. Roberta ha 18 anni, la sua vita definitivamente segnata. Ma le «fantasie mortifere» erano cominciate fin da bambina, come «un'antenna che capta il dolore disperso nell'aria».
Può essere letto anche come un "gesto politico" il diario lasciato dalla Tatafiore. Coerentemente al suo profilo di combattente, la riflessione privata si rispecchia nella discussione pubblica sul testamento biologico e l'eutanasia (non casuale la sua scelta di pubblicare alcuni articoli dedicati al caso Englaro), e il senso di queste pagine si potrebbe riassumere nell'interrogativo: «A chi appartiene la vita? Credo che la vita appartenga a ogni individuo libero di affidarla a chi vuole in base a ciò che gli suggerisce la coscienza». Prima di arrendersi al dolore della sua esistenza, l'ultimo saluto è per "l'amica-che-sa", l'amica che con lei condivide l'agonia dell'attesa. La incontra nella sua casa, l'abbraccia e nell'accomiatarsi le dice che la saluterà dalla finestra. «Anche mia madre mi salutava così», dice l'amica. A Roberta è rimasta una sola certezza: «Le nostre madri, sono sicura, ci aiuteranno».