Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Entrare al cinema per vedere un film per la seconda volta, a poca distanza dalla prima. Vedere lo stesso film due volte. Gli stessi titoli di coda, la stessa musica (ma non c'era musica). Le stesse facce (sullo schermo), le stesse smorfie. Gli stessi vestiti (i loro). Chissà se si possono qualificare le temperature, i braccioli, i profumi, il respiro di chi ti è vicino, la seduta più o meno comoda, la posizione (con una testa di donna in più che si mangia ora il centro ora la sinistra del grande schermo). Che ffetto fa non aspettare il dvd o il vhs e seguire per lo stesso tempo della visione la stessa storia con lo stesso sviluppo (chissà se il cervello mette in atto altre procedure di lettura o le stesse come comandata a degli scatti suggerite dalle parole o dal colore biondo dei capelli o...). Che effetto fa ritagliare questo spazio di "ancora una volta" di "rivedere quello che si sa prima che lo si sia dimenticato". Quindi non "per ricordarlo" non "per ritrovarlo" ma per "averlo ancora uguale (uguale?)". Ieri ho rivisto L'enfant.
Di Carvelli (del 05/01/2006 @ 09:05:34, in diario, linkato 1111 volte)
Da Was there a time (Vi fu un tempo) di Dylan Thomas
Sotto i segni del cielo chi non ha braccia
Ha mani più pulite, e dato che lo spettro senza cuore
E' l'unico a non essere ferito, il cieco vede meglio.
E' una scena che so, che ho visto. Lei saluta in punta di dita, lo sguardo fermo sul passato e una breve incognita sul futuro. In mezzo c'è la voragine di una ferrovia. In mezzo c'è l'ineluttabilità di un autobus che passa. In mezzo c'è andare e non restare. O non potere. Dopo - dopo questo precipizio tra le onde che fanno le dita - c'è la serena incertezza del domani. Ma la domanda è l'oggi. Qual è l'oggi? Le dita che ondeggiano come una pezzuola della mano? Lo sguardo che decide di non fermare la corsa delle vetture o il fischio che muove il treno? Ma è una scena che so. nel momento in cui la vedo mi è familiare. Ed è già oltre. Passata. Andata. Verso il dopo che arriva. Oggi.
Di Carvelli (del 03/01/2006 @ 14:05:26, in diario, linkato 1095 volte)
Ognuno ha il freddo che si merita e non è del tempo e non è del gelo. Ognuno ripara come può i suoi pensieri. O come crede. Coi tessuti che ha o che procura. Con lo scarto tra il percepito e i celsius ognuno trema o tentenna al vento. E non è delle stagioni il freddo o delle ore. E' come dire che il giro dei termometri fa il suo lavoro come il corpo fa il suo. E dall'incontro/scontro di queste variabili nasce la totalità dei climi percepiti nell'immutabilità degli eventi umani, della storia, delle epoche. Così non dici "è freddo" ma "ho freddo" né "c'è il sole" dici. Ma "sto bene" o "sto male". Senza guardare al barometro.
Mi è accaduto recentemente di ricevere una lettera per la rubrica di segnalazioni librarie di Blue che mi ha suggerito un tema che voglio trattare oggi qui. Esiste una particolare forma di plagio che si chiama eco. Essa si articola in 1 scrivere al modo di 2 scrivere quello che 3 scrivere come se. Il sottinteso (o l'inteso) è come se non si fosse letto... In realtà (accade spesso anche a me) si è letto e non si ricorda di averlo letto. Per cui le cose finiscono per assomigliarsi. Si somigliano gli stili e i temi. Alle volte si somigliano pure le idee di partenza e questo sembra (è) più grave perché mette a repentaglio la nostra originalità. Anche perché sovente la versione 1 va meno bene della versione 1.0. Anni fa avevo dichiarato di voler scrivere una sorta di epica dei precari e mobbizzati (uscirono una intervista sull'Unità a F.De Sanctis e un fondo perplesso sull'Avvenire di Carnero). Il progetto passò in secondo piano (sia con il mio editore con cui ero in parola per realizzarlo come seguito di BEBO E ALTRI RIBELLI che nei miei incipienti impegni a cui poi avrei deciso di dedicarmi in prima battuta). Successivamente la mia idea di CASTING LETTERARIO accantonata diventò (è diventata) reportage di altri ma non per questo ho gridato al plagio. Diciamo che al mondo (il nostro mondo di tamburellanti ripetizioni mediatiche) esistono delle risonanze che suggeriscono a molti le cose che a uno sembrano originali, nuove, personali. Ma ciò non toglie che esista il plagio e a me è capitato più di una volta (2 volte) di spedire progetti poi visti realizzare dagli stessi editori ad altra firma. Sul fatto che invece i romanzi sembrano raccontare le stesse cose, sciorinare gli stessi temi, sviluppare gli stessi ambiziosi plot sembra più effetto di un filo rosso che mette in comune senza farsene accorgere le idee di tutti. L'altro grande pericolo è una forma di master di scrittura replicato a go go. E questo fa parte di un sistema di cose per cui sembra che temi e stili debbano essere gli stessi o che esista una vulgata dello scrivere: lo propongono le case editrici che fanno tendenza, lo approvano i critici, lo rimbalzano i quotidiani e le tivvù, lo scimmiottano i piccoli editori, lo vampirizzano i grandi. Questo eccesso cancella lo sfondo, il secondo piano, il diverso. Che pure serve. Che pure dovrebbe servire.
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