Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Carvelli (del 07/07/2006 @ 14:12:11, in diario, linkato 1103 volte)
"Dopo di colpo capisco come la tenda del balcone/ dopo di me continuerà a battere contro il cemento./ Che gli alberi s'allungheranno sulla statale di Palmanova/ come le biglie colpite dalle biglie, le foglie contro il vetro./ E ci saranno sentieri nuovi sopra le nuvole,/ il cielo fisso di adesso ma non così immobile./ Diremo parole come pane, speranza, attimo, festa,/ parole come ciglia, labbra, mano, dita,/ sul vento che assorda e scuote la tenda."
Questa poesia è da LE COSE CHE DICO ADESSO di ALBERTO GARLINI. Un libro rubato (un sabato mi avevi letto COME DIRSI ADDIO, bella, ricordo) da una libreria non mia. E' bello scovare (in questo caso è lo scovare di uno scovare) un libro. Specie quando è piccolo e viene dalla persistenza, da un incontro casuale dove volere e non volere fanno un gioco di ombre. Ti domandi in quanti siete ad averlo (e come fare a farlo avere ad altri). Spesso si passa per qualche gentile redattrice di una casa editrice piccola. Il libro viene spedito in una busta che forse meriterebbe di essere conservata come la pagina di quel libro stesso. Quasi che la copertina abbia un appendice di carta gialla e francobolli.
A due a due si salgono i gradini solo se miri ad un piano basso o se hai fretta. Ma fare sei piani a balzi lunghi se non è per ansia è per sport. E poi il fiatone, e poi il sudore. Non è stagione per simili cavalcate o bisogna essere allenati. O bisogna fare pause ai pianerottoli. Ogni tanto.
Di Carvelli (del 17/07/2006 @ 10:15:27, in diario, linkato 1167 volte)
L'arte di perdere s'impara presto;
tante le cose col segreto intento
di andare perse che non è un disastro.
Perdi una cosa al giorno. Con malestro
accetta chiavi perse, un'ora al vento.
L'arte di perdere s'impara presto.
Perdi di più, più in fretta; al peggio apprestati:
luoghi e nomi e dov'è che avevi in mente
di recarti. Non sarà mai un disastro.
L'orologio di mamma ho perso; e questa!
che è l'ultima di tre case nel niente.
L'arte di perdere s'impara presto.
Ho perso due città, belle. E, più vasti,
altri regni, due fiumi, un continente.
Mi mancano, ma non è poi un disastro.
Anche perdere te (la voce, il gesto
amato) non mi smentirà. È evidente:
l'arte di perdere fin troppo presto
s'impara, e sembra (scrivilo!) un disastro.
Quello che è successo in questi giorni è un viaggio tra verde e cemento, laghi e fiumi organizzato da OsservatorioNomade/Stalker. Per saperne di più www.campagnaromana.net
In pratica trattasi di più di 100Km in avvicinamento a Roma, una piccola marcia - direi molto bonaria e molto democratica - di architetti, urbanisti, fotografi, stufenti, ambientologi. Quindi fatica, quindi sudore e sete ma anche l'idea di un territorio visto e appreso da sguardi e relazioni di prossimità. Forse seguiranno parole ad appunti e proiezioni o altro ma questo è un altro discorso. Futuro. Per ora il nostro bell'incontro e il serio proposito di riunire neuroni per fare qualcosa con quello che ci è venuto dietro (al fianco) in questi giorni. Non solo curiosità. Non solo potassio. Vedremo cosa sarà.
Forse c'è o c'è stato un momento migliore, un tempo giusto. Un'intensità senza dolore. Una linea sconnessa su cui, comunque, non s'inciampava. Qualche sostegno di fortuna, tempo buono o un ombrello per ripararsi. Una casa di mura spesse a cui chiedere la salvezza dal sole. Una stretta di mano decisa, così decisa da parere l'offerta di una presa. Una parola detta bene, un colore che non sbatteva sul viso, un cielo da guardare all'infinito.
Di Carvelli (del 18/07/2006 @ 14:09:17, in diario, linkato 1416 volte)
Ha camminato in Campagna Romana anche Marco Mantello di cui qui cito un brano uscito sull'antologia di Nuovi Argomenti Italville
(…)Odiavo quella gente, felice di avere gli occhi arrossati, che lanciava innocue bottiglie di plastica vuota davanti alle inferriate della zona rossa, scattando fotografie. Odiavo i sessantenni e le sessantenni di Pisa, Livorno e Recco, venuti lì dalla mattina con il pullmann organizzato dalla sezione locale di rifondazione comunista. Odiavo chi gridava: ‘Tre presente per il compagno Carlo!’. Odiavo Gad Lerner, arrivato di notte per fare il suo speciale; odiavo i ragazzi degli anni settanta, che parlavano per ore, su quel palco dove avevano raccolto una manciata di bozzoli di pistola. Ma soprattutto odiavo l’elicottero, che per tutta la notte aveva sorvolato piazzale Kennedy: ogni tre minuti un giro d’elica, e tutto quel rumore per filmare. Odiavo le divise schierate sul mare. E lo giuro sulle ceneri di Pasolini, che odiavo la natura di chi le indossava. Odiavo i brigadieri, i finanzieri, i forestali e i penitenziari, le loro facce di amici, con cui uscivo la sera, a diciassette anni, in un piccolo paese del salernitano: odiavo il loro pizzetto fascistoide, le loro fidanzate piò o meno eterne, dagli occhiali rifrangenti e gli stivali a mezza gamba; il loro stipendio da due milioni e quattro, che dai ventitre anni in poi gli avrebbe regalato una jaguar usata; odiavo il loro unico esame all'università -sociologia- fatto solo per avere il rinvio e provare il concorso di ammissione in un corpo dello stato. Odiavo quella voglia precoce di matrimonio, associata, in loro, a indipendenza; odiavo le loro famiglie; odiavo quando tornavano al loro paese, sulla spiaggia, nel sole di agosto e sudati, in divisa, solamente per farsi vedere in divisa, facevano le carezze ai cugini, ai nipotini. Odiavo le loro notti insonni, di scorta a un magistrato, le loro scurrili cacce all’immigrato, le loro missioni in medio oriente, non vietate da nessun parlamento, odiavo quando morivano e qualche stronzo, in parlamento, proponeva loro un monumento. Odiavo vedermeli adesso, lì davanti, schierati, con gli scudi, l'armatura e la loro dannata natura. Alcuni, dall’alto su Corso Italia, lanciavano lacrimogeni ancor prima che la manifestazione fosse iniziata. Facevano le prove, le divise, per vedere se i colpi arrivassero fino al marciapiede. Ci arrivavano. (..) Da Grifonville di Marco Mantello: da Italville - Nuovi Argomenti, 2004
"Quando avevo la tua età, mio nonno mi comprò un braccialetto di rubini. Era troppo grande per me, e mi scivolava su e giù per il braccio. Sembrava una collana. In seguito mi disse che aveva chiesto lui al gioielliere di farlo così. Quella grandezza doveva essere il simbolo del suo amore. Più rubini, più amore. Ma non andava bene. Non me lo potevo mettere."
Leggo Jonathan Safran Foer. Molto forte, incredibilmente vicino. E mi tornano in mente i vestiti buoni. Quelli troppo belli per essere indossati fuori. Quelli troppo speciali per le occasioni comuni, che finivano per essere il tema di una sfilata domestica. Ora è estate e - si capisce - anni fa tutto questo era spazio di piccole fughe a volte solo mentali per improbabilità di uscite. Ecco: è come se stessi leggendo (il libro è) l'estate del non uscire, del non potere uscire. Quel caldo schermato, la televisione accesa e poi spenta, il libro aperto e poi chiuso. La spesa con la mamma. E poi un disargine fatto di calore, sudore e tempo dilatato, tempo da riempire e occupare. Che poi alle volte è vero che il troppo amore, come un vestito troppo buono, va bene solo per la domesticità. Non può essere socializzato, indossato all'aperto. E non è solo il timore di vederlo sporcato, la paura che l'aria lo consumi, che gli sguardi altrui logorino i suoi tessuti. Più è largo e più non si mette. Ché poi si perde, se no.
Da qui a qui geografia, da lì a lì storia. Unisco puntini in un'immaginaria cartina dove disseminate stanno le persone che conosco. Quelle che amo. Quelle di cui ho bisogno. Quelle che sono state importanti per me (anche un solo giorno). Quelle di cui forse avrò bisogno. Quelle no (che non avranno bisogno di me né io di loro). Le persone conosciute per caso. Quelle nominate solo una volta. Quelle che hanno pronunciato il mio nome porgendomi un bicchiere, un piatto. Quelle che mi hanno detto in un appello (quelle che hanno sbagliato il cognome), citato in un discorso, pensato e omesso. Poi collego tutti questi punti. Da qui a qui segno una strada bianca. Da qui a qui una ferrovia. Da qui a qui un'autostrada. Da lì a lì una statale. Da lì a lì il tratteggio di un battello. Da qui a qui segno una provinciale. Rimangono sempre dei territori inesplorati.
Di Carvelli (del 20/07/2006 @ 11:56:14, in diario, linkato 1132 volte)
Carro decumano cattolicesimo punizione ascia veleno...senti come suonano queste parole? Non senti qualcosa che urta il nostro pudore, un bruciore, un colpo secco? E’ il suono? O è il significato? Neppure io lo so. Per esempio gesù erba comignolo mica fanno male. Mica ti schiantano dentro con la stessa durezza. Forse, allora, sarebbe il caso prima di parlare di fare l’analisi di quello che diciamo. Uno potrebbe, per esempio, parlare lento e dire, invece che “passami il coltello”, “facciamo delle listarelle?” Ma prima di parlare non abbiamo mai tutto questo tempo. O pensiamo di non averlo. E allora ecco qua, le parole. Comunque è dalle parole che nascono le guerre. E dalle guerre crescono vocabolari. Nuovi. Tutti pieni di “cannoni, calce, laido, tombe”. Dopo non è più questione di pescare nei sinonimi ma di riaffermare la lingua che parliamo. In guerra.
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