Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Come se non stessi facendo altro. Come se da uno scaffale aspettassi che mi fischiasse attirando la mia attenzione. Mi giro e ci parlo (novità? - l'adesivo - ma il finito di stampare reca nonembre 2007!). Mi parla. Frase 1. La prima. Inizia così. "Un saggio ha detto che dopo la perdita della madre, poche cose sono più salutari per un bambino che perdere il proprio padre". Inizia così. ce ne andiamo insieme. Il libro è questo.
Halklor Laxness - Il concerto dei pesci (iperborea). Presto la seconda puntata.
E dunque non dovremmo avere confini. Di conseguenza non staremmo male se un esercito c'invadesse perché noi non ci difendiamo. Non ne abbiamo bisogno. Non ne sentiamo l'urgenza. Siamo un popolo in pace. Noi siamo pronti a farci invadere, a fare entrare stranieri, a farci contaminare. E dunque? Non possiamo reclamare confini? Non possiamo ergere muri troppo alti? Non possiamo mettere un dazio all'ingresso né una tassa all'uscita? Sì, siamo una terra da attraversare.
«Non consideriamo l’amore importante perché è più forte della morte, ma perché è più debole. Dite quello che volete, ma la morte vi porrà fine. Una volta nella tomba non continuerete ad amare, non nel modo fisico che assomiglia all’amore terreno che conosciamo. È la sua natura deperire a conferirgli la profonda importanza che ha nella nostra vita. Se fosse infinito, se si potesse avere su richiesta, non ci sbalordirebbe come invece fa».
Jeffrey Eugenides - Middlesex
Erano le 24 ma era anche una serata fresca. Mi sono seduto nel giardino e ho letto. C'era un'aria serena, voci non italiane che viaggiavano basse da marciapiede a marciapiede o da terrazza a terrazza. Le parole, quelle che leggevo, si inanellavano l'una all'altra senza confliggere con le poche fluttuanti nell'aria frizzante della notte. Forse il Porto non era il liquore giusto. Forse era il solo. Eccomi che mi ritrovo a parlare di Halldor Laxness. Di lui leggete in questi siti: www.librarything.it/author/laxnesshalldor wikipedia.sapere.alice.it/wikipedia/wiki/Halldor_Kiljan_Laxness www.iperborea.com/web/autori/laxness.htm www.collettivamente.com/articolo/563574.html
Io vi leggo questa frase: "La nonna aveva l'abitudine di rispondere alla gente con modi di dire e proverbi. Spesso c'era un umorismo benevolo nella sua risposta, ma anche un po' distaccato, in qualche modo; come se stesse parlando da una finestra aperta a qualcuno alle sue spalle; la cantilena monotona con cui si esprimeva aveva una punta di compassione, a volte quasi di rassegnazione, ma mai di amarezza". E sono andato a letto. nella stessa aria fresca del mattino pensando all'Islanda e al concerto purtroppo già esaurito (scoperto ieri mentre andava a vedere i Doctor3 all'Auditorium) dei Sigur Ros. Anzi, a proposito.
POSTILLA IN FORMA DI ANNUNCIO. CERCO BIGLIETTO PER CONCERTO SIGUR ROS AUDITORIUM ROMA
Uno sull'altro ma l'abbiamo visto. Capita sempre più di rado. ma per i Dardenne questo e altro. Intanto qualche informazione http://it.wikipedia.org/wiki/Jean-Pierre_Dardenne. Mi domando cosa sarà stato prima de La promesse. Come fare a vedere il pregresso. Che forse è un invito alla rassegna. Se è possibile Il silenzio di Lorna è il film più bello da quello che so, da quando so. Ma sono gusti. Io, per esempio, ad oggi ho sempre tradito una passione per Rosetta. Ma nel Silenzio c'è la colpa e un modo naturale (innaturale) per esorcizzarla. Concepire la riparazione. Una spiazzante via per una pace interiore che alla fine è uan perdita, una fuga ma anche un ritorno all'essenziale. Un film carico di simboli (questo più che gli altri) ma sempre nell'orizzonte della schiettezza dei due registi. Quella che sappiamo. Come per poco altro mi accade rivedrò più di una volta.
Questo racconto è uscito sull'ultimo numero di Zoe Magazine
Due più due meno due
di Roberto Carvelli
Magari sarà il caso nostro e basta. Di me e di Mena. Magari solo a noi è successo così, che non ricordiamo come è nata l’intenzione, chi ha fatto il primo passo. Nessuno di noi lo sa più: non c’è una traccia né nella testa né nel corpo. Era un desiderio tuo che io ho fatto mio o viceversa? Un non volerti contraddire? Un tuo assecondarmi? Nessuno lo ricorda più. Chi ha detto “proviamo”? Oggi diciamo “è un gioco”. Diciamo “insieme... lo abbiamo fatto insieme”. Lo raccontiamo così forse come altri raccontano il rito del bridge o del burraco. Una cosa a giorni precisi. Appuntamenti. Vestirsi e spogliarsi. Cura dei dettagli prima e precipitazione dopo. Un giro d’Italia a parcheggi, cinema, discoteche, dune. Lampeggiare ed essere illuminati. Scendere salire: da un auto all’altra. Nudi in un cono di alogeni, in un carosello di fari, di sportelli e schiamazzi senza più suscettibilità. Il carnevale di ogni settimana con una maschera preparata con cura. Lingerie e lampo a verticale totale, pochi bottoni per uno slaccio veloce. Scattarsi delle foto e girarle a un indirizzo mail. E aspettare: un’altra foto. E ricostruire in quello scatto qualcosa che ti piaccia, che mi piaccia. Una telefonata, “simpatici”, “bel tipo”. Oppure “non mi convincono, mi sembrano due persone rozze”. O decidere di provare, di andare a vedere come in un poker. Che cosa può succederci? E poi andare in un albergo e cambiarci di stanza o stringerci attorno ad un letto in tanti e ognuno la sua mossa, alfiere in F1, torre in B4. Locali d’elite e discoteche finte popolate di russe a gettone di presenza. Andarsene o rimanere, cancellare dalla lista gente o luoghi, tra zone industriali e periferie appartate. Un giro nei sexy shop per rinnovare la seduzione cedendo ogni tanto a una volgarità accettabile, compiaciuta o divertita. E, intanto, la vita di tutti i giorni.
Ogni tanto forse ci saremo chiesti nella nostra solitudine “e se finisse?” Se tutto questo perdersi e ritrovarsi, andare in ufficio, fare la spesa, pagare tasse e mutui, puntare la sveglia alle sette, accendere il forno, se tutto questo avesse un “basta”? Se non ci fosse più intesa, se non resistesse una volontà? Che ne sarebbe del nostro gioco? Chi dei due continuerebbe e come? Ma sono le domande di tutti. Litigare e fare pace, aspettarsi e rimanere delusi: i tentennamenti di ogni coppia. Cose così, forse troppo serie, a cui è bene di tanto in tanto far seguire una partita. Mi guardi, ti spogli, da una macchina un uomo ti guarda, mi fai un occhietto, “sei bella sempre”, scendi, ti vedo sparire nel buio fuori dalla portiera che rimane aperta, aspetto un’altra te, conto fino a dieci, a cinque sale una donna minuta, chiudo gli occhi.
«L'uomo vive come un verme, ma scrive come gli dei».
Imre Kertész
L'ho letta all'alba dunque garantisco sulla freschezza ma non sulla verosimiglianza. Ma ci provo. Viene da una scrittura buddista ma la storia è un apologo universale. La storia di un mercante che finisce - siamo nel regno di Parthia, in India - nelle spire dell'insana passione del re di quei luoghi per i cavalli. Passione che si acuisce fino alla preparazione di un intruglio dalle foglie larghe capace di trasformare persone in cavalli. Come forma di cortesia il re decide di testarla solo sugli stranieri - stante le proteste interne - e i malcapitati si mutano in equini. ma quel mercante ha un "figlio devoto", così si chiama lo scritto in italiano che ho letto (è di Nichiren Daishonin). Bene, quel figlio che fa? Come dimostrazione di amore filiale va a cercare il padre e, trovatolo e recuperata la stessa erba gliela dà in pasto ottendendo la reversibilità della trasformazione. Dunque un figlio può salvare un padre. Sì, un figlio può. Non si dice che deve e non si dice come salvare e cosa si salva. Ogni tanto sento dire (leggo) "uccidere il padre" (la freudiana teoria ormai assodata) e penso che per molti si trasformi in una specie di regolamento di conti sotto mutate spoglie (mutate sta per non violente fisicamente). A me è chiaro cosa voglia dire e non si configura diversamente dalla storiella che vi ho citato. Insomma, salvare e uccidere per me qui hanno una parentela non così lontana. Dove salvare significa restituire una dignità superiore alla luce di una crescita (del figlio). Una specie di felice superamento e insieme una restituzione. Purché il tutto avvenga senza violenza e per devozione. E perché sia così non deve essere un fatto personale. Perché non è mai un fatto personale la trasformazione che qui si richiede, il salvare, il trascendere (appunto). Per fare questo serve poca persona e per attenuare la persona serve un qualcosa di più grande a cui riferirsi per controbilanciare il nostro breve orizzonte. E non è facile? No, non lo è. Anche se è semplice.
Di Carvelli (del 13/06/2008 @ 11:38:38, in diario, linkato 1472 volte)
Boris Pahor. La memoria e il dolore
di Roberto Carvelli
Il caso Pahor avrebbe dovuto scoppiare prima in Italia perché Boris Pahor pubblica regolarmente nel nostro Paese ma in lingua slovena dal 1948 e da diversi anni ha ricevuto i giusti riconoscimenti in Francia, Germania e Usa. Il caso Pahor avrebbe dovuto accasarsi prima tra gli editori italiani non fosse altro per il fatto che il Nostro porta sulla carta d’identità la città di Trieste e il 1913 come data di nascita. A dispetto della quale è ancora nel pieno dell’attività e una sua recente presenza alla trasmissione di Fabio Fazio gli ha regalato simpatia generale e i primi posti delle classifiche di vendita. Se non fosse stato per le anticipazioni meritorie di un editore di Rovereto, Nicolodi, che aveva mandato in stampa Il rogo nel porto, La villa sul lago e Il petalo giallo (2001, 2002 e 2003, rispettivamente) di Pahor non avremmo saputo nulla o quasi. Ci è voluta la ripubblicazione (leggermente rivisitata) del suo capolavoro Necropoli (Fazi, € 16,00) per un editore medio-grande e più saldamente innestato nelle politiche culturali (le pagine dei giornali, i critici, l’indirizzo verso un ripensamento della sua figura intellettuale). E’ così che va il mondo. A me di Pahor avevano già parlato amici sloveni e un ricercatore di Napoli e blogger - www.malacarne.splinder.com - trasmettendomi la copia iniziatica di quella prima stampa a cura del Consorzio Culturale del Monfalconese. Dunque ecco Nekropola con tutto il suo portato di dolore, quello dei campi di concentramento, un dolore che Pahor racconta e rivisita nel rivivere dei ricordi e nel presente di un ritorno nei luoghi dei delitti. E’ possibile andare in gita in un campo senza sentirsi turisti? L’autore solo pare permettersi con sofferenza di dire in bel no. I ricordi dello scrittore triestino di lingua slovena sono sì dolorosi ma di un dolore naturale che fa ancora più male nell’osservazione sobria della scala delle valutazioni: “L’estate era magnifica, anche se non per noi”. Un dolore spiegato: “Non eravamo stati rinchiusi lassù per sperimentare insoliti punti di vista sugli insediamenti umani, ma perché potessimo renderci conto con chiarezza di quanto fosse assoluta la nostra distanza da quegli insediamenti”. Oltre alla banalità del male c’è, ben oltre essa, una vera e propria beffa del male. La “natura carsica” del carattere dell’autore fa da propellente per il rinforzarsi dell’impressione del grande deliquio compiuto quasi alla metà del secolo scorso da una nazione, una parte, per quanto mal consigliata automotivatissima, del genere umano verso un’altra parte del genere umano. Una parte, quest’ultima, declinata e divisa per triangoli sulla veste (massimo esempio di massimizzazione disumana). Pahor ha il sospetto, in effetti, che questa banalità sia una normalità del male: “Oppure l’uomo, a dispetto della propria natura, accetta inconsciamente le regole di un ambiente in cui anche la morte si attiene a un orario e a un ordine del giorno”. Quello di Pahor è un libro che sta a tutti gli effetti al fianco delle opere prestigiose di Levi e Kertesz e le classifiche di vendita una volta (ma speriamo due o tre volte) tanto raccontano un interesse che ci fa piacere veder esplodere facendo scoppiare il male negazionista o tardo-nazifascista che ancora inquina molte menti perturbate dal male.
|