Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
1 parola che potremmo usare in tanti modi diversi e che invece usiamo in 1 solo. 1 parola di 4 lettere. PENA
Esce La Lettura con il Corriere della Sera. Vi parlo intanto della recensione di John Berger, a cui va tutta la mia stima e ammirazione, della mostra londinese di Degas e la danza. Berger cita Baudelaire: "La danza è la poesia delle braccia e delle gambe, è la materia graziosa e terribile che si anima e si abbellisce attraverso il movimento". La cito anche in relazione al bel film di Wim Wenders, Pina 3D. Bellezza che a molti puristi bauschiani è sfuggita per adesione "storica" al modello. Il film di Wenders è un tributo personale. Ad oggi. In noi. Riuscito anche nella capacità di fare altro con quel materiale. In avanti (e la potenzialità del 3D emerge con impensata adeguatezza). Non solo a ritroso. E questo non era facile e comunque era rischioso perché, appunto, uan trasformazione personale in luogo di un sommesso o compunto tributo post-mortem. Quello di Wenders è un film vivo.
Ripenso a questa meravigliosa estate. Provo a ricordare le ore e i giorni di cui si è servita per rendermi il semplice collaboratore felice del suo tempo. Provo e in un attimo mi sembra di essere di nuovo quello che non sono più. Mancano i gradi del termometro, le spiagge, i piatti leccati fino alla fine. E tanto altro che ora mi sfugge.
Il giorno dopo le ho chiamate queste mie due amiche genovesi anche se non ci si sentiva da un bel po'. E una infatti aveva cambiato il cell nel frattempo. L'altra stava bene ma aveva a casa un'amica senza più casa. Due amici di mio fratello hanno perso moto e scooter. La mia amica aveva una voce grave e arrochita che non ricordavo. E anche se è passato il tempo credo dipenda da tutte queste cose recenti legate all'alluvione. Ed era una voce seria e senza curve. Dritta. Alle volte le voci sono così. Con dentro cose non sonore.
Partirò da un film non bello (ma che almeno mi è servito ad allenare il mio inglese) - S.Darko - e da un racconto molto bello, invece, di Alice Munro per dire qualcosa sull'amicizia femminile in tempi adolescenziali. Per dire forse anche qualcosa dell'invidia mia per quel miscuglio un po' debole e un po' inamovibile che è lo stringere un legame che dura a dispetto di tutto. Anche se poi magari si perde irreparabilmente e con la stessa forza. Il racconto di cui parlo si intitola Jesse e Meribeth e nel titolo già storpia i nomi del nuovo battesimo dell'amicizia. Una cosa che mi piace in questo racconto ma spesso nella Munro (questo è uno dei due tradotti da Silvia Pareschi invece che dalla Basso ma sono entrambe due traduttrici magnifiche) è la tripla aggettivazione (che qualche volta gli editor cassano): "artificiosi, avvilenti e formali"; "intimo, ombroso e trascurato" . Ma l'inizio? L'inizio, dico. Avete presente la maestosità semplice? "Ai tempi del liceo strinsi un'affettuosa, sincera, monotona amicizia con una ragazza di nome MaryBeth Crocker. Mi abbandonai a quel legame come d'estate mi abbandonavo alle acque tiepide del Maitland, quando mi sdraiavo sul dorso e, muovendo solo mani e piedi, mi lasciavo trasportare dalla corrente". (Guardatevi poi, in parallelo, il finale, la separazione dove l'elemento dell'abbandono/distacco è il vento che entra nel negozio e sembra volersi portare via una delle due). E il seguito è sempre di un'intensità sorvegliata e bellissima. Fino alla rivelazione di quel sentimento che dicevo: "Io e MaryBeth ne parlavamo spesso. Lei diceva che quando era sgattaiolata verso la mia sedia le batteva forte il cuore, ma si era detta: ora o mai più". E io vi dico che lo so, che l'amore alle volte è meno di tutto questo. E che ha ragione Jonathan Franzen quando scrive: "Alice Munro è uno dei pochi scrittori a cui penso quando dico che la letteratura è la mia religione".
|