Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Carvelli (del 01/12/2011 @ 14:50:48, in diario, linkato 1208 volte)
Certi giorni di Billy Collins
Certi giorni metto la gente al loro posto a tavola, piego loro le gambe alle ginocchia, se le ginocchia sono snodate, li sistemo nelle loro sedie di legno piccoline.
Tutto il pomeriggio si guardano fisso l’uomo col vestito marrone, la donna col vestito blu, perfettamente immobili, perfettamente composti.
Ma in altri giorni sono io quello che viene preso per le costole e sistemato nel soggiorno di una casa delle bambole a sedere insieme agli altri al tavolo da pranzo.
Molto divertente, ma a te piacerebbe non sapere se il giorno dopo lo passerai camminando a grandi passi, come un dio vigoroso con le spalle tra le nuvole, o seduto laggiù tra la carta da parati a fissare dritto avanti a te con la tua piccola faccia di plastica?
(traduzione di r.morresi) da http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2008/10/20/certi-giorni-billy-collins/
Di Carvelli (del 02/12/2011 @ 14:11:06, in diario, linkato 1026 volte)
Da un articolo comparso ieri sul Corriere della Sera. Scritto da Roberto Calasso dell'Adelphi. Ecco, il suo pensiero sull'editoria e l'autoeditoria: "Infine, appare ogni giorno più evidente che, per la tecnologia informatica, l'editore è un intralcio, un intermediario di cui volentieri si farebbe a meno. Ma il sospetto più grave è che, in questo momento, gli editori stiano collaborando con la tecnologia nel rendere superflui se stessi. Se l'editore rinuncia alla sua funzione di primo lettore e primo interprete dell'opera, non si vede perché l'opera dovrebbe accettare di entrare nel quadro di una casa editrice. Molto più conveniente affidarsi a un agente e a un distributore. Sarebbe l'agente, allora, a esercitare il primo giudizio sull'opera, che consiste nell'accettarla o meno. E ovviamente il giudizio dell'agente può essere anche più acuto di quello che, un tempo, era stato il giudizio dell'editore. Ma l'agente non dispone di una forma, né la crea. Un agente ha soltanto una lista di clienti. O altrimenti si può anche ipotizzare una soluzione ancora più semplice e radicale, dove sopravvivono solamente l'autore e il (gigantesco) libraio, il quale avrà riunito in sé le funzioni di editore, agente, distributore e - forse anche - di committente. Viene naturale domandarsi se questo significherebbe un trionfo della democratizzazione o invece dell'ottundimento generale. Per parte mia, propendo per la seconda ipotesi. Quando Kurt Wolff, esattamente cento anni fa, pubblicava nella sua collana «Der Jüngste Tag», «Il giorno del giudizio», prosatori e poeti esordienti i cui nomi erano Franz Kafka, Robert Walser, Georg Trakl o Gottfried Benn, quegli scrittori trovavano immediatamente i loro primi e rari lettori perché qualcosa attirava i lettori già nell'aspetto di quei libri, che si presentavano come snelli quaderni neri con etichette e non erano accompagnati né da dichiarazioni programmatiche né da lanci pubblicitari. Ma sottintendevano qualcosa che si poteva già percepire nel nome della collana: sottintendevano un giudizio , che è la vera prova del fuoco per l'editore".
Il resto qui: http://www.corriere.it/cultura/libri/11_dicembre_01/calasso-segreto-editoria-arte-di-dire-no_07fc3906-1c13-11e1-8ed7-30f7808a816f.shtml
Così scriveva ai figli Che Guevara prima di partire per la misione in Congo.
Cari Hildita, Aleidita, Camilo, Celia ed Ernesto,
se un giorno dovrete leggere questa lettera, sarà perché io non sono tra voi. Quasi non vi ricorderete di me e i più piccoli non ricorderanno nulla. Vostro padre è stato uno di quegli uomini che agiscono come pensano e, di sicuro, è stato coerente con le sue convinzioni. Crescete come buoni rivoluzionari. Studiate molto per poter dominare la tecnica che permette di dominare la natura. Ricordatevi che l'importante è la rivoluzione e che ognuno di noi, solo, non vale nulla. Soprattutto, siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa in qualunque parte del mondo. È la qualità più bella di un rivoluzionario. Addio, figlioli, spero di vedervi ancora. Un bacione e un grande abbraccio da Papà.
Che ci faccio qui? Piazza Regina Margherita e la globalizzazione di Roberto Carvelli
Che ci faccio o, meglio, che ci facevo? Piazza Regina Margherita numero 27, un portone che ho varcato centinaia di volte e che forse non varcherò più. Erano qui gli uffici di un mio editore che la scorsa settimana ha annunciato la chiusura dopo trent’anni di onorato servizio. Francesco Coniglio, nell’area romana dell’underground – specie fumettistico e specie fumettistico d’autore – è un nome che evoca qualità e rispetto generale. Coniglio editore (prima Mare Nero) per molti ha voluto dire eros (dalla storica rivista Blue a saggi di genere e d’avanguardia) e culture alternative quando questa parola aveva un senso non sospetto e a sé, non in relazione a qualcos’altro. Quando questi settori erano un campo di battaglia di pochi contro le collane di editori più grandi e non a rischio fallimento. Coraggio contro presidio di un genere tra i tanti da aggiungere a un catalogo generalista. L’ho scoperto – che avrebbe chiuso – il giorno in cui lo annunciava in un’intervista a Gianpiero Mughini ma dalla sua viva voce. Domenica scorsa, incrociandolo per caso sotto il portone dei suoi uffici mentre sfogliava i giornali che riverberavano la notizia a dire che stavolta non si trattava di un’amara considerazione sulla resistenza dei piccoli editori (alle porte del classico appuntamento della Fiera romana dedicata). La crisi del mondo dell’editoria, un mercato sempre più self publishing e on line, sempre più catene e massimizzazione che sconfigge i Davide dello scouting contro il Golia della globalizzazione. La stessa elefantiaca pressa che sta minacciando di chiusura la storica Libreria Croce come nel romanzo di Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa. Piazza della Regina, il bar dei gemelli, la vineria più in là uno storico bowling da appuntamenti comitivari adolescenziali, il ristornate dei Butteri. Ci rifarò qualcosa da queste parti, comunque. Una piazza che ha cambiato così tante volte profilo da aver bisogno di cartoline e immagini a mente di chi ci ha vissuto. Mio padre la ricorda con la statua centrale e tutto che gli gira attorno. Io con i sampietrini e senza le larghe pedane con panchine che hanno voluto restituirle l’idea umana di uno scambio di parole invece che due strombazzate di clacson nel caos che anticipa il viavai universitario e medico. Chi ci passa forse ha un appuntamento all’Eastmann, una lezione di economia politica a La Sapienza, un fiore da mettere su una tomba in fondo, al Verano. Sta seduto su un tram o cammina sotto i platani magari per scegliere un regalino di Natale come in questo periodo di pochi soldi e molta fantasia per fare bella figura nel rispetto di una delle crisi peggiori che si ricordino da sempre. Crisi globale e crisi della globalizzazione: è bene ricordarselo ogni tanto. Piazza della Regina è una specie di sfiato che prelude o anticipa tutto. Un avamposto, un punto di riferimento per sapere che sei sulla strada giusta per andare da qualche altra parte. La necessità della domenica per scoprire di essere valida a sé e non come un addentellato del mondo degli uffici che hanno soppiantato l’umanità residenziale. Camminarci, allora, diventa un atto di resistenza come quello di un singolo contro l’Organizzazione. Un atto sempre più raro, destinato ai vecchi e ai fortunati che hanno potuto tirar fuori soldi per viverci o continuare a farlo e non contarli agli altri per lavorarci. In ragione di questo ha visto sparire i negozi per fare la spesa in favore dei locali per passare una serata a tavola (anche qui la globalizzazione c’entrerà qualcosa, no?). La domenica di piazza della Regina ha l’andamento slow e un po’ zombie di chi esce da casa a testimoniare che qualcuno ancora ci vive in mezzo a questi palazzi di muri spessi e riscaldamento condominiale. Disposti per scala e per lettera. Due passi in mezzo a questo rombo laico (come mai a nessuno è venuto in mente di costruirci una chiesa?) e ci si sente in un concetto senza poteri stabiliti, quello del transito, dell’andare in cui fermarsi è davvero un atto resistenziale. http://www.paesesera.it/Societa/Piazza-Regina-Margherita-e-la-globalizzazione
Non ve la voglio stare a menare tanto con l'effettoserra, con le nonpiùmezzestagioni, con la glaciazione, con la tropicalizzazione. Ma stanotte ho dormito a intervalli dettati da punture di zanzare e stamane mi rode un po'. Vorrei pure mettere la testa sulla ManovraMonti. MareMonti?Solo Monti pare. Vorrei capire se vengono davvero solo colpiti i ceti medi. Stupirmi della sorpresa (o forse no). Forse solo mia. Vorrei davvero poter credere che questo Paese non è legato mani e piedi a una casta inattaccabile che decide, chiede di decidere, dimostra di condividere e poi recede e torna sulla difesa della sua stessa inattaccabilità complice il nostro silenzio, il nostro credere alle favole (nere o rosse, di piazza o di palazzo). Stupirmi che questa casta ha trovato i suoi più aspri guerrieri nel giornale più destromoderato di una volta (con i suoi AlesinaGiavazzi, RizzoStella, Gabanelli). Stupirmi e poi di nuovo irritarmi. Senza l'illusione che una volta schiacciata, la zanzara, tutto tornerà come prima. Meglio di prima.
Su Il Riformista, recensendo un libro nuovo di Fabio Geda per Transeuropa (e spiegando il senso di una collana della casa editrice anconetana) Errico Buonanno affronta il tema degli inediti di valore. Molti scrittori, è vero, hanno un brillante nascosto. "Quei gioielli troppo puri, troppo poco lavorati, troppo autentici per poter essere sottoposti alla macchina delle case editrici" come scrive Buonanno. Spesso alcuni scrittori hanno un libro perfetto nella loro produzione (apparentemente) minore. Canto alla durata, Handke. Biglietti agli amici, Tondelli. Il polverone, Tonino Guerra. Cito a caso. La storia della letteratura, se ancora serve a qualcosa, se esistono critici altrettanto puri e non lavorati, dovrebbe(ro) fare questo. Tarare, valutare e prezzare questi gioielli levando la polvere del tempo e dell'insuccesso. Ma è il senso delle proporzioni il nemico della contemporaneità (del nostro essere "contemporanei" e della "contemporaneità" come concetto). Si nota nelle condanne come nelle assoluzioni. Ma anche e soprattutto in tutta la teoria dell'impunità di cui si nutre talvolta il verdetto critico impuro.
Ognuno di noi ha una specie di posologia. Una tempistica di effetti che ci rende indigesti, gravi o nocivi. Per quanto tentiamo di nascondere il foglio illustrativo è così. Anche non volendolo prima o poi finiamo per suscitare rifiuti. Ho sempre pensato alle persone, me compreso, come a un sistema di effetti che fortuna vuole si combinano rendendo la chimica un composto molto personale e poco scientifico.
Il Quadraro come concetto geografico-sentimentale
di Roberto Carvelli
Via dei Lentuli, Quadraro, Roma, Italia. A sinistra l’autunno, tardo. A destra la primavera, incerta. Un giorno di pioggia e nuvole e, a spartiacque, il giallo “foglie morte” e il rigoglio dell’indecifrabile stagione sempreverde. Ecco l’immagine del non più mezze stagioni. Al Quadraro. Quartiere con suoi confini precisi che fa venire in mente la omelia delle scuole medie. Confina a nord con...a sud con... E ci sono segni precisi. Via Tuscolana che scorre lì a sinistra, oltre il giallo, poco più su. Ma poi via degli Angeli, via Columella. Non c’è pericolo da queste parti di annessioni, né il rischio di una Grande Tuscolana come di una Grande Serbia o di una Grande Germania persino nella divisione dei municipi: qui VI, di là X. Il Quadraro è piccolo e piccolo, si sa, è per definizione bello. Di un bello talvolta triste ma sempre orgoglioso. L’orgoglio è noto, quello del rastrellamento che lo ha reso quartiere a medaglia d’oro del valore. Vivervi – e io, modestamente lo vissi (per dirla parafrasando Totò) – fa pensare a vivere in una pagina di storia. Storia triste che forse sopravvive in pochi ricordi ancora “viventi”.
Al Quadraro ha dedicato un bel diario di viaggio personale Fernando Acitelli. Lo ha fatto sulla scorta della memoria e della vita del papà. Sulla strada del padre (Cavallo di Ferro) s’intitola questa ricognizione picara sui luoghi generativi della sua vita nella forma di un romanzo topografico. Un tributo personale pieno di sentimenti e strade. Scrive Acitelli (autore dell’indimenticato poema per figurine calcistiche La solitudine dell’ala destra): “Il Quadraro non è soltanto un quartiere, è uno stato d’animo”. E dissente su quei viaggi intellettuali – e da “ricchi” – in questa terra che pochi possono capire se non l’hanno vissuta. Acitelli l’ha vissuta, anche nelle parole del padre, e la racconta come una “linea difensiva uruguaiana”. Si attarda su due luoghi dell’anima: la fine di via dei Quintili (dalle parti di via Quinto Ortensio, per intenderci, verso la Madonnina), la Quinta Avenue come la ribattezza di questo quartiere, e via dei Pisoni che le maps di Google vi farebbero vedere in cima alla foto. Lo scrittore ci si perde a caccia di segni di presenza-assenza dei tempi di suo padre. Trova pochi cambiamenti e questa è la forza di questo piccolo agglomerato di case basse o bassissime in cui l’ascensore più che un orpello è un assurdo concettuale. “Le case intoccabili del Quadraro, quei villini di cui si coglie l’antica stabilità, la lesena definitiva, la carezza della prima mano d’intonaco, il pergolato che prende a distendersi su un lato senza finestre, a definire un orto, rifugio di quiete e di fresco”. Sono pagine belle quelle di questo libro traboccante di sentimenti come la fontanella in cui beve prima di lasciare il sagrato del quartiere verso via degli Angeli. Fermano un’idea dell’abitare in parte sopravvalutato di valore. La lotta dei confini, unico motivo del contendere (vero!), non è così a prova di alleanze. I dissidi per questioni di staccionata sono spesso punti fermi (o morti) di un contendere che definisce separazioni che neppure una riunione di condominio potrà sanare. E questo trascina in un pensiero di Romoli e Remi senza composizioni di sorta. Ma è vero che bisognerà trovare una pace oltre (senza) il coltello. Un accomodamento che sarà, però, una tregua armata.
Il Quadraro è cambiato o sta cambiando – un pub in arrivo, murales nel Giardino dei Ciliegi, oltre a quelli di via dei Lentuli (ma ne parleremo in una puntata futura) – ma nulla potrà far dimenticare la storia triste di quell’alba nazista. Nulla potrà togliergli quell’aria paesana, privarlo del senso maudite e un po’ malinconico, né fargli perdere l’orgoglio del colore rosso, l’idea di vivere – condividendoli – i principi di un’uguaglianza che per altri è sopravvalutata. Ma i risultati, a ben vedere, sono sotto gli occhi di tutti. Il Quadraro, come pochi altri quartieri romani, avrebbe bisogno di un vincolo che lo protegga per quello che è oggi. Un’oasi urbana con una specie a rischio di estinzione, da proteggere: un’architettura fatta di libertà monocellulare pianificata. Non la serialità dei villini a schiera che omologa il desiderio di indipendenza in un concetto-alveare in cui tu che compri hai l’impressione di aver scelto quello che, in definitiva, ti ha scelto. O, peggio, comprato.
www.paesesera.it/Societa/Il-Quadraro-come-concetto-geografico-sentimentale
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