Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Chi aspetta l'autobus alla fermata freme e sbuffa. Qualcuno guarda l'orologio o tamburella su superfici risonanti. Siccome la paletta indica almeno otto linee, qualcuno proverà fastidio all'arrivo di una nuova vettura. La speranza si consuma male e a lasse di tempo.
Il film di Laurent Cantet, Ritorno a L’Avana, nasce nell’ombra proiettata da una crisi di processo. Il processo è (o meglio la sua crisi è): se proteggi qualcosa dal rischio che possa essere corrotto o corrompersi, lo corrompi. Inizialmente, definitivamente. Il mo(n)do in cui tutto questo è raccontato è quello della Cuba dell’era d’oro in cui il sogno della rivoluzione in uno o più paesi (Bolivia e il Che eccetera) sembrava una luce non meteorica. Cuba era una stella che brillava nella galassia caraibica e faceva luce sugli States, sul mondo paraoccidentalizzato centroamericano, latinoamericanizzato ma protetto da evoluzioni “indie” a suon di strumentalizzazioni ben gestite. Una stella che illuminata dalla Russia manteneva un fulgore che poi avremmo scoperto, come molte altre luci, essere dopata. Ma dopata era la controrivoluzione, dopata la scelta di sostenere regimi militari. In ultima analisi era dopata l’idea di dopare. Alla fine di tutto questo materiale di storia e storiografia ci sono le storie minime. Le commoventi saghe umane che hanno dato corpo a questo doping, a questa iperprotezione. Il film è in definitiva un’apoteosi al negativo dell’essere minati nella propria libertà. Ma la morale non è: poverino chi è controllato, vessato da un ingranaggio sospettoso! Quanto: chi controlla corrompe. Chi prova a dominare rovina e crea le basi per la sua stessa rovina. Anche scegliere – e bene – i propri efficaci controllori, basisti della rapina della libertà non fa che ritardare la fine del processo di disgregazione. Utilizzando germi per combattere altri germi in un corpo che è già malato per il solo fatto di essere stato scelto come oggetto di cura.
Avete presente quando Billy Collins scrive: "Non sono stato mai a pescare sul Susquehanna/ né su nessun altro fiume per quel che importa/ ad essere sinceri"? Non ce l'aveva certo con nessun poeta-pescatore. Metti un Carver o non so. Non voleva accampare scuse coraggiose a favore di autori non avvincenti o vittoriosi come Hemingway o chi per lui quando scrive nei versi successivi "Mi piace molto di più starmene/ in una stanza tranquilla come questa -/ il ritratto di una donna sulla parete,/ un piatto di mandarini sulla tavola -/ cercando di ricreare la sensazione/ di pescare sul Susquehanna". Piuttosto sottolineava l'avventura di genere che fa di un poeta o uno scrittore un cacciatore senza esserlo, un soldato senza aver mai abbracciato un moschetto, un giocatore di baseball anche se non dotati di mira particolare o un giocatore di poker con pochi punti buoni in mano. E, talvolta, persino, un poeta o uno scrittore senza esserlo davvero. La questione sta lì in mezzo, prima o dopo qualcosa che magari non c'è stato se non in una fantasia o in una allucinazione. La letteratura è questo prima e questo poi di un qualcosa che non è mai venuto. Soprattutto a e per chi scrive. Una piccola diminuzione, verrebbe da pensare? Una finzione? O piuttosto il suo vuoto/pieno specifico? Il gesto che crea quel che ancora non c'è stato o quel che c'è già stato (in una forma che non c'è stata).
Di Carvelli (del 26/11/2014 @ 08:28:29, in diario, linkato 1052 volte)
Il prete è corpulento.
Ha l'aria vagamente ottusa forse a causa delle labbra tumide e del collo eccessivamente irsuto che gli donano un profilo da primate. Sembra brasiliano ma nel suo corpo deve scorrere qualche goccia di sangue nero. Legge e annota il suo libro di catechesi scrivendo gravemente con la sinistra le parole "perdita di senso". Poi si alza e scende spingendo con vigore distratto i passeggeri a cui chiede scusa.
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